Orsini, Vicino (Pierfrancesco detto Vicino) – Signore feudale (4 mar. 1523 – Bomarzo, 28 gen. 1585).
Figlio del condottiero Gian Corrado (ramo di Mugnano) e di Clarice di Franciotto Orsini di Monterotondo, successe in tenera età al padre (1535) nella signoria feudale di Bomarzo, Chia, Castelvecchio (oggi Castel di Tora), Collepiccolo (oggi Colle di Tora), Pietraforte e Montenero (oggi Montenero Sabino), spesso risiedendo a Bomarzo, dove il padre fin dal 1525 aveva iniziato ad edificare il palazzo baronale. La successione non fu priva di complicazioni: il patrimonio fu diviso tra O. e il fratello minore Maarbale nel 1542 per arbitrato del cardinal Alessandro Farnese. Chia e la Torre di Chia erano toccati a Maarbale, ma O. li riscattò con poca spesa, essendo luoghi ormai diruti. A Viterbo nel 1541 fu rappresentata in suo onore (e alla presenza del cardinale Reginald Pole e di Vittoria Colonna) la commedia La Cangiaria del medico Giacomo Sacchi, il cui titolo allude a un’erma che causa metamorfiche trasformazioni dei personaggi; di essa O. si ricorderà nell’ideare le sculture all’ingresso del giardino costruito alcuni anni dopo a Bomarzo. Il suo interesse per le lettere è confermato dalla dedica a lui fatta del Raverta, trattato sull’amore del dotto letterato Giuseppe Betussi di Bassano (1544); O. infatti prendeva parte al cenacolo letterario che si riuniva presso il cardinal Farnese, ricco d’ingegni di varie parti d’Italia, acquistandone una formazione intellettuale varia e complessa, con forti influssi veneziani; del principale letterato del gruppo, Annibal Caro, fu personale amico. Il legame con i Farnese, famiglia del regnante papa Paolo III, si rafforzò in seguito alle nozze, celebrate 1’11 gen. 1544 nel castello di Giove, con Giulia di Galeazzo Farnese (ramo di Latera, Latera, 1527 – Bomarzo, gen. 1557), dalla quale ebbe figli e figlie. Nel 1546 prese parte, agli ordini di Ottavio Farnese, alla spedizione di un’armata pontifìcia di 12.000 uomini in Germania, dove si combatteva la guerra smalcaldica; vi era, come legato apostolico, il cardinal Farnese, insieme al cardinal Cristoforo Madruzzo, cui O. rimase legato.
Tornato a Bomarzo nel gen. 1547, trovò compiuta la chiesa parrocchiale fatta costruire dalla moglie Giulia durante la sua assenza. Sempre seguendo le scelte politiche dei Farnese, prese parte al conflitto nelle Fiandre a fianco delle truppe francesi; nella battaglia di Hesdin gli imperiali colsero una gran vittoria e O., insieme a molti altri, fu preso prigioniero (17 luglio 1553) e custodito nel castello di Namur, poi in quello di Sluis. Liberato nell’estate del 1555, fu ben presto coinvolto in nuove azioni antiasburgiche dei Farnese e inviato a Parigi nell’estate del 1556, donde tornò nel gen. 1557 avendo i Farnese mutato disegno. Subito fu chiamato dal papa a combattere nella guerra di Campagna scoppiata tra Paolo IV e il duca d’Alba viceré spagnolo di Napoli. Era capitano pontificio a Velletri, quando nel 1557 la ribelle Montefortino (oggi Artena) finse di volersi sottomettere al papa; O. vi mandò una compagnia di soldati, che fu trucidata fino all’ultimo uomo in un’imboscata. La furibonda collera di Paolo IV volle allora la conquista di Montefortino, con la distruzione del borgo e il massacro della popolazione, cui O. prese parte ma senza responsabilità di comando.
Finita la guerra, O., nel frattempo rimasto vedovo, si risposò con Clelia di Clemente Clementini, di un’antica famiglia di Orvieto e Amelia, ben presente anche in Roma; anche dalle seconde nozze nacquero figli. Nonostante gli esiti molto deludenti delle sue azioni militari, O. fu considerato all’epoca un buon condottiero, prudente ed assennato; come tale fu celebrato nel poema Amadigi di Gaula di Bernardo Tasso (1560) e nella grande opera di Francesco Sansovino sulla casata Orsini (1565). Non volle però più prendere parte ad azioni militari; all’impresa di Lepanto manderà suo figlio Orazio, che vi morì (1571). Unico incarico pubblico di quegli anni fu la nomina a priore del Comune di Viterbo (1563).
Rimase legato ai Farnese, ma con forte disillusione sulle loro mene politiche; il ripiegamento su se stesso lo indusse a vivere ritirato a Bomarzo, immerso in un distacco ironico e amaro, condito da sincera adesione al pensiero di Epicuro. Unendo motivi della tradizione nobiliare e guerriera della sua stirpe con suggestioni culturali di varia e fantasiosa origine, progettava da anni di realizzare a Bomarzo, oltre al completamento dell’edificio iniziato dal padre, un «bosco sacro», sorta di giardino rinascimentale illustrato da statue e luoghi allegorici. Probabilmente i lavori furono avviati nel 1552, poi più volte interrotti durante gli impegni militari degli anni 1553-1557, quindi ripresi più alacremente fino al 1580. La pietra del giardino venne scavata, incisa, scolpita in figure animali e in simboli enigmatici, incrostate d’erbe e di muschi quasi fossero testimonianza d’ignota arte etrusca. Nel 1579, alla morte del fratello Maarbale, cavaliere di Malta, O. ereditò il castello di Penna (oggi Penna in Teverina, in provincia di Temi). Conclusi i lavori al suo «boschetto», che dedicò ai cardinali Farnese e Madruzzo, proseguì quelli nel palazzo baronale fino al 1583. Ivi morì due anni dopo, lasciando erede principale il figlio di primo letto Marzio; fu sepolto nella chiesa parrocchiale di S. Maria, ma la tomba andò distrutta nella ristrutturazione settecentesca dell’edificio.
Personalità notevole di aristocratico e intellettuale, O. incarnò il contrasto tra l’orgoglio e la valenza d’appartenere a una stirpe antica e gloriosa e la realtà della decadenza del proprio ramo a livello provinciale, tra la lealtà che mai venne meno verso i Farnese, suoi protettori fin dalla nascita, e il ripudio interiore nei confronti dei maneggi politici d’una casata di fortuna tanto più recente della propria, tra il desiderio di sincerità o di «sfogar il core» (come disse in un’iscrizione del suo giardino) e le crescenti spinte al reticente conformismo all’avvio dell’età della Controriforma, tra l’aperta fiducia nella sola vita dei sensi e i precetti di un moralismo spiritualistico che, fosse d’ascendenza senecana o cristiana, egli giudicava con disprezzo pure «chiacchiare». I tratti ribellistici avrebbero potuto fare di O., se si fosse dato alle lettere, l’autore di opere da porre all’Indice e forse lo avrebbero portato di fronte ai tribunali dell’Inquisizione; ma in altro modo egli trovò il modo di esprimere il proprio animo, creando cioè il fantasioso mondo del giardino di Bomarzo (da lui denominato “boschetto” o locus amoenus), la cui bizzarria ha dato luogo alla moderna denominazione di “Sacro Bosco” e di «Parco dei Mostri». In quelle architetture, sculture, motti e aforismi riuscì a unire l’erudizione umanistica a un gusto onirico per l’ignoto, il mostruoso, l’esotico (gusto confermato dal suo entusiasmo per la Vita di Apollonio di Tiana), il sensualismo epicureo preso a bussola della propria vita con le pungenti esigenze di un inquieto intelletto, la megalomania della stirpe e il desiderio di gloria con Tamara misantropia, il senso di fallimento, la deprimente malinconia. Se le fonti letterarie alle quali l’O. potrebbe aver attinto per redigere gli episodi scultorei e le iscrizioni del “boschetto” sono note da tempo, è recente il tentativo di dargli una lettura ed un significato nuovo, come paradigma della conoscenza universale. L’ispirazione più profonda deriva probabilmente dall’opera di Giulio Camillo Delminio, L’Idea del theatro (Fiorenza 1550) che rappresenta una sorta di manuale di spiegazione di tutto l’universo esistente. Anche il “Sacro bosco” è una lettura di quel XVI secolo che si era avviato con la rottura degli schemi e che si andava sistemando, nella seconda parte, entro rigide interpretazioni che lo avrebbero soffocato e spento. Così come spento, cioè ignorato, resterà per oltre tre secoli il “Sacro bosco” divenuto troppo complesso per una spiegazione che avrebbe dovuto puntare sulla visione complessiva piuttosto che nella lettura delle singole parti o nelle vicende del suo ideatore.
BIBL. – Litta, Orsini, tav. XIV; Marocco, IX, p. 31 ; Furio Fasolo, Un soggetto cinematografico su Vicino Orsini e la villa dei mostri di Bomarzo, Roma, Tip. Regionale, 1955; Signorelli 1968, pp. 67-68; Sforzi 1974; Barbini 1980; Nadin Bassani 1988; Bredekamp 1989 (studio di riferimento per la ricchezza critica nella ricostruzione della personalità e della cultura di O.); Giuntani 2000; Angeli 2003, p. 366; Genealogie, Orsini di Mugnano; A. Rocca, Bomarzo ermetica. Il sogno di Vicino Orsini, Viterbo 2013; A. Rocca, Sacro bosco. Il giardino ermetico di Bomarzo, Viterbo 2014; DBI, vol. 79, pp. 710-712 (di A. Koller).