Gatti – Famiglia (Viterbo, secc. XII-XVI)
Tra le più importanti a Viterbo tra il tardo Medioevo e la fine del Cinquecento, l’apice del potere dei G. si ebbe nel Duecento, quando la famiglia possedeva numerosi immobili all’interno della città e aveva la signoria su diversi centri del territorio, quali Valcena, Sala, Fratta, Cornienta Vecchia, Cornienta Nuova, Monte Casoli, cui si aggiunse successivamente Celleno. Le origini sono forse da far risalire alla Bretagna, da dove i G. sarebbero giunti a Viterbo nel sec. XII, secondo la teoria che spiega così il nome Brettoni (o Brectonibus e Britonibus) con cui i suoi membri sono a volte menzionati nel sec. XIII; accanto a questi nomi compare anche quello di Gatteschi, per indicare tutta la famiglia, mentre con G. si intendeva più nello specifico la discendenza da Raniero di Bartolomeo, che dette i natali ai personaggi della famiglia più rilevanti per la storia di Viterbo.
La genealogia comunque è nota anche per i secc. X e XI – essa ha inizio da Rodilando (883), da cui discesero Guarnulfo (939), Rolando e Francesco de Brettone -, ma tra i primi componenti della famiglia attestati a Viterbo va annoverato Rolando Veralducii, che all’inizio del sec. XIII era persona facoltosa, in grado di prestare denaro e proprietario di numerosi immobili. Dalla moglie Latina ebbe tre figli: Bartolomeo, che fu console, Veraldo, sindaco del Comune di Viterbo (1231), e Leonardo. Da Bartolomeo (m. 1239), che sposò Viscontessa, nacquero Pepone, Guittone, Rolando e Raniero (v.).
Tra i sette figli di Rolando si ricorda Pietro, che sposò Rosa e fu il primo membro della famiglia a ricoprire la carica di rector et defensor populi a Viterbo (1306-1310). Raniero (v.) fu capitano del popolo; durante il suo mandato si fece promotore della costruzione (1257-1266) del Palazzo dei Papi, pregevolissima opera architettonica che oggi è il simbolo della città e che ospitò i pontefici per ventiquattro anni.
Raniero sposò Guitta, dalla quale ebbe sette figli, tra cui Visconte (v.) e Raniero (m. 1317). Il primo, che fu podestà di Arezzo e Foligno, sposò una nobile di Viterbo, Teodora Capocci, e fu autore di diversi interventi urbanistici nella città di Viterbo tra cui la costruzione, a proprie spese, dell’ospedale presso il complesso di S. Maria in Gradi, la Domus Dei. A Raniero si deve invece la torre di San Michele (detta anche San Biele), eretta come torre di avvistamento per una migliore difesa della città dal lato della Strada romana; in una lunetta è raffigurata la Madonna e ai suoi piedi sono i committenti dell’opera: Raniero con la moglie Alessandrina Alessandri di Piero e uno dei loro sei figli. Uno di loro, Silvestro (v.), forte della sua carica di rettore e di difensore del popolo di Viterbo, tentò di assoggettare completamente la città, peraltro con un sistema di governo estremamente duro, schierandosi quindi contro il papato. Questo atteggiamento causò la reazione del pontefice Giovanni XXII e della stessa cittadinanza che lo scacciò; i membri della famiglia G. dopo Silvestro furono allontanati dalla città per più di un secolo.
Da Silvestro discese per linea diretta Silvestruccio, che ebbe tre figli: Fazio (m. 1442), che fu priore della città (1409-1433), Giovanni (v.), anche lui priore (1433-1438), e Raniero. Questi fu il nonno di Petruccio, notaio a Celleno, che sposò Lella di Petrignano di Corneto dalla quale ebbe quattro figli: Giacomo ( 1435-1468), Lella, Simonetta e Guglielmo (m. 1456), che di Celleno fu podestà e conte palatino, oltre ad essere signore di Roccalvecce. Da Giovanni nacque Princivalle (m. 1454). Questi, cavaliere dello Speron d’oro, sposò Finaltiera di Cecco Baglioni, conte di Castel Piero, e fu anche lui podestà di Celleno; venne ucciso dalla famiglia Tignosi e dopo di lui ebbe inizio il declino del potere dei G. a Viterbo. Da Princivalle nacque Giovanni (m. 1496), che fu dedito più alla vita privata che a quella politica e militare e si preoccupò di iniziare alcuni interventi di restauro nel castello di Roccalvecce; accusato da papa Alessandro VI dell’occupazione di Celleno mentre ne era podestà, per volere del pontefice subì la confisca dei beni e fu poi ucciso. Con Giovanni, che ebbe sette figli vissuti tra la fine del Quattrocento e il Cinquecento, ebbe fine la parte più nobile e potente della famiglia, anche se la discendenza proseguì per almeno un altro secolo.
I G. possedevano in città più di un’abitazione; ciò che resta di quella più conosciuta si trova tra la fonte Sepale (oggi Fontana Grande) e la strada di S. Giovanni in Pietra. Si tratta di un edificio di stile architettonico vicino a quello del Palazzo dei Papi, che però già nel 1523 doveva essere in pessime condizioni, visto che era denominato Casaccia. Si ha poi notizia di almeno altre due abitazioni: una doveva essere in contrada Santo Stefano, vicino al macello, mentre l’altra, probabilmente di piccole dimensioni, era in contrada San Quirico; Visconte, nel 1306, doveva inoltre possedere una casa in piazza Nuova. I G. avevano una cappella nella chiesa di S. Stefano (la menzione è legata alla figlia di Raniero, Guitta, nel 1309) e il giuspatronato sulla cappella di S. Antonio nella chiesa di S. Sisto (1473).
Il sepolcro principale della famiglia era nella chiesa di S. Maria in Gradi.
– Arme: fasciato d’argento e di rosso di otto pezzi. Più tardi, di rosso e d’argento di sei pezzi con in capo il gatto d’argento in campo nero.
BIBL. – Scriattoli 1915-20, tav. VII; Signorelli, III/1, pp. 86-89; Angela Lanconelli, Gatti (Gattus), Raniero, in DBI, 52, p. 588; Angela Lanconelli, Gatti, Silvestro, in DBI, 52, p. 595; Angeli 2003, pp. 241-243 (con fonti e bibl.); G. Signorelli, I Gatti in Miscellanea di studi viterbesi, Viterbo 1962, pp. 427- 461; Ignazio Ciampi, Cronache e statuti della Città di Viterbo, Arnaldo Forni Editore, ristampa dell’edizione di Firenze del 1872, passim.