Laurienti (Laurente), Sante, o.f.m.oss. – Poeta (Cori, 8 apr. 1597 – Roma, 21 ott. 1656).
Di famiglia corana un tempo fiorente (e nota per l’omonimo beato Sante, predicatore agostiniano, 1339-1392) ma impoverita nel XVI secolo, restò in tenera età orfano del padre Porfirio e della madre Caterina degli Antonisanti. Compiuti in patria gli studi di grammatica e retorica presso il convento agostiniano di S. Oliva, entrò come novizio nell’Ordine francescano dei Minori Osservanti nel convento della SS. Trinità ad Orvieto (1614), dove studiò dialettica e poi filosofia con il teologo francescano Bonaventura Innocenti di Velletri. Nel 1622 fu ordinato sacerdote e due anni dopo prese l’abito religioso nel citato convento orvietano.
Visse per molti anni nel medievale convento di S. Francesco a Canino (poi Ospedale), dedito ad attività letteraria; poi a Roma nel convento «capo» della Provincia Romana dei Minori Osservanti, S. Maria in Aracoeli, dove fu lettore di teologia. Durante la peste del 1656 fu attivo nell’altro convento romano dell’ordine, S. Bartolomeo all’Isola, trasformato in lazzaretto; ivi, assistendo gli ammalati, restò contagiato e morì. La prima delle sue opere dovrebbe essere la sacra rappresentazione La ritrovata Oliva, scritta «nella fanciullezza» sulla leggendaria santa titolare del convento dove studiava, poi smarrita ma rinvenuta dall’amico e compatriota Melchiorre Bossi, che gliela inviò a Canino, dove allora L. viveva; il poeta la completò e la pubblicò (Viterbo, per il Diotallevi, 1632); l’opera comprende prologo e cinque atti in versi, con venti personaggi; l’azione si svolge «in Cora». Tre anni prima aveva pubblicato l’«idillio sacro» Il Francesco impiagato, sulle stimmate del santo di Assisi (Viterbo, per Agostino Discepolo, 1629), ma nessun esemplare resta di questa edizione. Inedite rimasero le due opere maggiori di L.: il poema cavalleresco II Corace (in settanta canti, di cui venticinque superstiti nella Bibl. Naz. Centrale di Roma, ms. Vitt. Emanuele 422) e un compendio storico della sua patria (Historia Corana, Bibl. Casanatense, ms. 4057).
Di altre opere ci restano i soli titoli, citati in un capitolo autobiografico dell’Historia Corana: la favola pastorale L’Amor crocifisso, la volgarizzazione Le Letame poetiche, una raccolta di Rime diverse spirituali, l’idillio sacro II Calvario, il poema in ottave Il Battista, la favola pastorale L’avara Filli, i Sonetti familiari, le rime pastorali Lo avaro et ingrato Leone, la tragicommedia in prosa Il figlio rubello e disleale, l’Indovinello artifizioso, la Stronzeide, tre tomi di Lettere familiari, un rimario, l’Exercitium quotidianum spirituale, nonché un Memoriale e l’Espositione delli precetti della regola francescana, traduzioni entrambe dall’originale spagnolo di fra Juan Niño. Sul Corace un’ampio studio è stato condotto mezzo secolo fa da Carlo Filosa, che ne ha sottolineato l’importanza e il fascino, promanante dal «sostrato di spirituali tendenze e artistiche suggestioni», dagli «episodi di singolare freschezza idillico-voluttuosa» e da quelli «di briosa comicità e di robusto taglio realistico», dagli effetti di incantamento sensorio di numerose descrizioni e, più in generale, dallo spirito di «magia» metamorfica della natura che pervade l’opera, dal vivo amor patrio che la anima, con la suggestiva (e acutamente «archeologica») rievocazione di dirute città dell’antico Lazio, nel quadro paesaggistico delle monumentali rovine sparse tra campagne, colli e marine.
Un tale poema (o piuttosto romanzo in sonanti ottave) era rimasto caro all’amico Bossi e ad altri Corani, finché non fu lodato nel primo Ottocento da Giulio Perticari e da Giuseppe Marocco, che molto apprezzò quei versi rozzi, ma «di dantesco stile». L’autore, che ne scrisse la parte centrale e principale a Canino negli anni 1628-1631, vi inserì una dura profezia di sventure (la peste del 1630, la guerra di Mantova, la spaventosa eruzione del Vesuvio nel 1631) come divina punizione contro la conculcazione dei diritti degli ordini e congregazioni religiose compiuta da Urbano VIII; questa fu probabilmente la ragione che ne impedì la pubblicazione. Quanto all’Historia Corana, condotta dalle mitiche origini di Cori ai primi decenni del Seicento, fu scritta da L. nel 1637-1638 nel convento dell’Aracoeli, e il manoscritto reca la dedica al Comune e ai Conservatori di Roma, che nella chiesa dell’Aracoeli avevano il proprio luogo ufficiale di culto. Non ne esiste ancora un’edizione, auspicata dal Filosa per la ricchezza dei riferimenti storici e culturali, nonché per la scrittura «vivace e colorita».
BIBL. – La maggior parte delle notizie biografiche sono date dallo stesso autore nel capitolo LIX dell’Historia Corona e riportate nell’ampio saggio di Filosa (Filosa 1967), che costituisce lo studio fondamentale su L. Inoltre: Perticari 1822, p. 125; Marocco, V, pp. 148-152 (dove L. è chiamato Virginio, forse suo nome al secolo prima di prendere l’abito religioso); Annales Minorum, XXX, 1951, pp. 274, 327; Scarnicchia 1966, pp. 106-109; Franchi 1988, p. 181; Carosi 1990, pp. 47-48, 355.