Tiburzi Domenico – Brigante (Cellere, 28 mag. 1836 – … ,23/24 ott. 1896).

Di famiglia poverissima, figlio di Nicola e di Luigia Attili, sin da ragazzino aveva svolto il mestiere di pastore e poi di buttero. La profonda indigenza della famiglia e l’insofferenza per l’iniquità sociale di cui era vittima e testimone avevano determinato precocemente in lui un forte sentimento di ribellione; probabilmente per questa ragione, più che per una vera e propria motivazione politica, risultava tra i sostenitori della «Lega Castrense», organizzazione clandestina d’indirizzo liberale. Iscritto tra i ricercati per furto nel 1852, T. fu arrestato una prima volta nel 1863 con l’accusa di aggressione e ferimento, ma dopo poco fu rilasciato per «desistenza della parte offesa».

Sposato con due figli (che alla morte della moglie Veronica dell’Aia furono affidati ai parenti essendo lui latitante), nel 1867 commise il primo dei numerosi omicidi della sua storia di fuorilegge, uccidendo un guardiano che lo aveva sorpreso nei terreni del marchese Guglielmi a rubare erba per il bestiame. Il Tribunale di Civitavecchia lo condannò a diciotto anni di lavori forzati da scontare nello stabilimento penale delle saline di Tarquinia; lì strinse un forte legame con Domenico Biagini, brigante di Farnese condannato a venticinque anni di galera, con il quale nel giugno 1872 riuscì a fuggire dalla casa di pena di Porto Clementino. T. si rifugiò nella zona di confine tra Lazio e Toscana, nella Selva del Lamone, detta anche Sassicaia di Castro, ancora oggi quasi impraticabile. Mosso da un ideale di giustizia sociale fortemente sentito, seppure del tutto personale e piuttosto confuso, aveva ideato una forma di taglieggiamento offrendo ai possidenti locali, dietro il pagamento di forti somme, la protezione dalle incursioni criminali e addirittura dalle rivolte dei lavoranti più poveri. Rigido nei suoi princìpi, rifiutava la violenza gratuita e applicava questa risoluzione, a dire il vero, spietatamente; si atteneva ad un suo personale codice di comportamento che prevedeva la fedeltà assoluta, la generosità nei confronti dei miserabili e l’ossequio nei confronti dei signori del luogo.

Il controllo della zona intorno a Viterbo era esercitato perfettamente dal T., dal suo luogotenente Fioravanti e dalla sua banda, al punto che essi arrivarono ad allontanare dalla zona quelli che loro stessi, in base a criteri del tutto opinabili, definivano «malfattori». Il brigante divenne in breve tempo il mito dei diseredati della Tuscia e della Maremma; la solidarietà popolare verso la sua figura era talmente alta che quando il governo Giolitti decretò una massiccia operazione nel Viterbese e nel Grossetano per privare la banda della fitta rete di relazioni che ne consentivano, di fatto, l’impunità, il brigante riuscì in ogni caso a sfuggire alla cattura grazie all’appoggio dei contadini. Malgrado l’alto numero di arresti effettuati, l’operazione repressiva non ottenne il risultato sperato; tra gli arrestati figurava, però, uno dei figli del brigante, Nicola, il quale aveva intrapreso a sua volta un’attività di allevamento di suini e, soprattutto grazie alle rimesse paterne, aveva accumulato un patrimonio ingente e si era fatto costruire una casa signorile; qui T., negli anni della latitanza, faceva regolarmente ritorno in occasione delle ricor­renze o di avvenimenti importanti. La taglia imposta sulla sua testa crebbe nel corso degli anni fino a raggiungere, durante il governo Crispi, la somma di 10.000 lire. Fu catturato e ucciso nella notte tra il 23 e il 24 ott. 1896, nel corso di un’azione partita da una segnalazione d’un contadino. Secondo il macabro rituale dell’epoca, il corpo del brigante ucciso fu ricomposto, legato ad una colonna e fotografato.

Per carisma e abilità personale, T. fu l’ultimo leggendario brigante delle terre di confine tra Lazio e Toscana, sebbene vada considerato che la formazione di nuove forze politiche e sindacali segnava ormai, in particolare in quella zona geografica, la fine del fenomeno. Le vicende della sua banda successive alla sua scomparsa sono a questo proposito assai significative: lo sostituì il Fioravanti il quale, spostatosi nella zona boscosa tra Manciano e Pitigliano, in breve tempo s’inimicò la popolazione che era stata uno dei punti di forza nella vita di macchia del Tiburzi. Nel giugno del 1900, a quarantuno anni di età, Fioravanti fu ucciso da un personaggio che egli considerava amico, dopo essere stato stordito con il vino.

BIBL. – Brigantaggio 1893, pp. 90-99; A. Cavoli, Il giustiziere di Cellere. Storia degli omicidi di Domenico Tiburzi, Pisa 1975;  Mugnai 1992, pp. 75-80; Porretti 2001, pp. 211-219 (con bibl.); Tei 2002, p. 19 (con bibl.); V. Padiglione, F. Caruso, Tiburzi è vivo e lotta insieme a noi. Catalogo del Museo del brigantaggio a Cellere, a cura di M. D’Aureli, Arcidosso 2011.

[Scheda di M. Giuseppina Cerri – Isri; integrazione di Luciano Osbat – Cersal]