Maidalchini Giacinto, o.p. (al secolo France­sco) – Letterato (Viterbo, 1605 – Palermo, 1644).

Fi­glio di Andrea e di Laura Costantini, fu battezzato il 18 marzo 1605 con il nome di Francesco. Entrò adolescente nell’Ordine domenicano nel santuario di S. Maria della Quercia presso Viterbo, prenden­do il nome di fra Giacinto (un santo domenicano polacco del sec. XIII che era assai venerato nell’Or­dine). Studiò a Roma nella scuola del lucchese Gio­vanni Gualterotti presso la Chiesa Nuova (1616-­1617), poi fu convittore del Collegio clementino (1618) e studente alla Sapienza (fino al 1623), for­se laureandosi in teologia. Il 5 feb. 1624 pronun­ziò i voti solenni nel santuario della Quercia, ri­nunziando a ogni suo bene a favore dei genitori.

Fin da ragazzo appassionato di lettere e teatro, scrisse vari testi drammatici, pubblicandoli sotto pseudo­nimo in ragione del suo stato religioso, nonché ope­re d’altro genere, edite invece a nome proprio. Ap­prezzato predicatore, morì prematuramente a Palermo, dove teneva sermoni nella quaresima 1644. Se fosse vissuto, il suo ingegno e il favore della zia donna Olimpia gli avrebbero potuto procurare un grande futuro («sogetto di vaglia, a cui morte invi­diò la porpora», Aprosio).

Le principali notizie sul­la sua vita sono date dal Quetif cui furono fornite con qualche errore dal padre Vincenzo Maria Fon­tana, informatore sugli scrittori domenicani della Provincia Romana. I tratti della sua cultura e per­sonalità emergono dalle opere. Tra il 1623 e il 1628 pubblicò sotto pseudonimo tre commedie (I stra­vaganti successi, «comedia nova e ridicolosa», Vi­terbo, per il Discepolo, 1623; La nascita d’Himeneo, «comedia nuvolare celestiale», Viterbo, per il Discepolo, 1623; Gl’amanti schiavi, «comedia ri­dicolosa o più tosto capriccioso ghiribizzo del­l’Accademico Ritirato», Orvieto, per il Ruuli, 1631), una favola boschereccia (Rinaldo prigionie­ro, Orvieto, per Rinaldo Ruuli, 1629) e tre tragi­commedie (L’innocente principessa, Roma, appresso il Mascardi, 1627; La principessa Corianna, Ronciglione, 1638; Elimanto prencipe di Cipro, Bracciano, per Andrea Fei, 1638), tutte edite dalla libreria del Morion d’Oro in piazza Navona di Maurizio Bona, il maggior libraio-editore di testi teatrali dell’epoca.

Sempre sotto pseudonimo pub­blicò un Panegirico a monsignor Pietro Paolo Ca­puti governatore di Narni (Terni, per Tommaso Guerrieri, 1626) e una raccolta di brevi prose (Il di­porto de gli ingegni, composto di vari distinti opu­scoli privi di note tipografiche tranne uno

[Della inquietudine del cervello intitolata La fiera d’Eli­cona\ che reca: Venezia, presso il Sarzina, 1640). Con il nome Giacinto Maldachini compare con al­cuni versi nella raccolta poetica Le glorie della fa­miglia Comnena (Venezia, 1635). Con il nome se­colare di Francesco Maidalchini o semplicemente come signor Maidalchino pubblicò a Venezia altre opere di argomento devoto.

Inedite rimasero numerose opere ci­tate nella prefazione della Principessa Corianna; i titoli sembrano per la maggior parte di commedie (così Le astutie scoperte, Il bravo chiarito, Le due sorelle erranti, L’insolenti burlati, L’Ismenia, I pro­digi d’amore, Gli schiavi fuggitivi, forse L’alchi­mia), ma non mancano saggi letterari (Le centurie d’Elicona), politici (Gli elementi politici, La sala de corteggiani, forse Il bastone de ’ manigoldi) e raccolte argute di bizzarrie in prosa (Le stringhe di Zefirino, La mercantia d’achi, fìbbie, spille, botto­ni e centorini, forse anche La cuffia de’tignosi). Un saggio latino sulla calamita è stato di recente tra­dotto e pubblicato. Le opere teatrali di questo auto­re ebbero successo e furono ristampate; le comme­die, che imitano quelle di Giovanni Briccio (in par­ticolare M. trasse da La Siderea del Briccio quella pubblicata con il titolo La nascita d’Himeneo) nel­l’uso di personaggi ridicolosi e di dialetti in am­bientazioni scenicamente sperimentali (l’azione de­gli Amanti schiavi è in Aleppo); la boschereccia Ri­naldo prigioniero fu scritta «per recitarsi in musi­ca», forse composta da Giuseppe Giamberti mae­stro di cappella del duomo di Orvieto; le tragicom­medie presentano i tipici tratti di mescolanza tra ro­manzo, pastorale e ridicolosa, con l’aggiunta del gusto dell’esotismo. Gli atteggiamenti ludici giun­gono a limiti di dissimulazione caratteristici della cultura del tempo.

Dai fronte­spizi e dedicatorie delle opere si ricava che M. ap­partenne alle accademie degli Eterocliti di Narni, dei Ritirati di Foligno e degli Ardenti di Viterbo. Nelle dedicatorie e negli avvisi al lettore, secondo un vezzo molto comune nell’attività teatrale del­l’epoca, gioca al ribasso: l’opera è senza pretese perché «fatta in sei giorni per fugir l’otio d’estate» ( 1631 ) o addirittura scritta in meno di tre giorni pur articolandosi in cinque atti con 18 interlocutori più prologo e intermedi in versi (Elimanto, 1638); tut­tavia l’autore non rifugge anche da discussioni cri­tiche di carattere generale sullo studio della poesia comica (nel Diporto degli ingegni, 1640, e già nel­la dedica e prefazione del Rinaldo prigioniero e nel prologo degli Amanti schiavi), sostenendo in so­stanza il primato dello stile moderno rispetto ai mo­delli classici. La padronanza brillante della parola, il gusto ingegnoso e satirico, la discreta cultura di­stinguono questo autore dagli altri Maidalchini, av­vicinandolo semmai alla zia Olimpia.

BIBL. e FONTI –  ASR, Atti dello Stato Civile, Appendice, Li­bri parrocchiali, S. Maria in Vallicella, “Stato delle Anime 1616”, c. 261.  Aprosio 1689, p. 53; QE, II, p. 537; Acarigi 1965; Maidalchini 1965; Signorelli 1968, p. 98; Franchi 1988, pp. 130, 135, 153, 226, 227, 395 (con ulteriori rif. bibl.); Angeli 2003, p. 294.

[Scheda di Saverio Franchi – Ibimus; riduzione di Luciano Osbat – Cersal]