Decio (Decii, Deci) Antonio – Letterato (Orte, ca. 1560 – Roma, 19 ago. 1597). Nacque da famiglia ortana forse non adeguatamente agiata per mantener­lo negli studi, poiché fu cresciuto a Roma insieme al fratello maggiore Cinzio da un benefattore suo il­lustre concittadino, Filippo Coccovagini, influente ecclesiastico nella corte romana; Cinzio venne av­viato a Roma alla carriera ecclesiastica, mentre D. studiò diritto a Perugia, dove si laureò in giovane età. Altrettanto presto fu nominato dal papa uditore generale delle Marche e quindi ricoprì funzioni giu­ridiche e amministrative in varie città. Fu governa­tore a Matelica, ebbe il presidentato di Ripatrasone, l’ufficio di Fabriano e di Rocca Contrada, poi fu ancora governatore a Visso, San Severino e ca­pitano a Todi. Nel 1595 fu nominato dal principe di Palestrina, Francesco Colonna, «auditore et soprin­tendente dell’uno et dell’altro stato suo».

Nel 1597 un’improvvisa malattia lo colse a Roma dove si era recato per far visita al fratello malato. Morì il 19 ago. dello stesso anno e fu sepolto in S. Spirito in Saxia. La sua presenza a Roma dev’essere stata tuttavia frequente, poiché fu tra gli amici prediletti di Tor­quato Tasso negli ultimi anni della sua vecchiaia, come pure frequente era il suo ritorno nella città na­tale, dove possedeva una cospicua proprietà terrie­ra e uno dei maggiori palazzi cittadini, in contrada San Giovenale, nel quale ospitò più volte persona­lità di riguardo in visita a Orte.

Alla sua morte lasciò la vedova Ventura Coccovagini e tre figli: Fabio, in seguito beneficiato di S. Pietro in Roma, Giovan Pietro e Francesco. Il D. compose, come esercizio letterario, una tragedia in versi, l’Acripanda, che diede alle stampe dopo alcuni anni a Firenze, nel 1592, per i tipi del Sermartelli e sotto gli auspici di Giovanni de’ Medici, incontrando subito un grande favore di pubblico che proseguì per tutta l’età ba­rocca. L’Acripanda ebbe cinque riedizioni, fino al 1812.

Il D., spronato dal clamoroso successo della tragedia ben testi­moniato dal contemporaneo Iano Nicio Eritreo (Gian Vittorio Rossi), nutriva altri progetti lettera­ri, partecipati con attenzione e simpatia dall’am­biente intellettuale romano e interrotti bruscamen­te dalla morte che lo colse in giovane età, ben pri­ma dei 40 anni. Non si conoscono infatti altre ope­re del D., anche se un coevo cronista di Orte, L. Leoncini, oltre all’Acripanda gli attribuisce «tante composizioni et canzoni et sonetti et prose di lingua toscanissima et polita» e trascrive nella sua cronaca un sonetto del D. dedicato a Orte.

Il D. venne sepolto nella chiesa romana di S. Spirito in Saxia; il suo ritratto appare nel monumento funebre del Tasso, nella chiesa romana di S. Onofrio.

BIBL. e FONTI — Leoncini, II, cc. 138v-139r, 324v.; Erythraeus 1645, p. 181; Fontanini 1723, pp. 310-311; Flavio De Bernardinis in DBI, 33, pp. 548-549; Sarnelli 1999, pp. 8-26 e passim; Gioacchini 2001 ; Distaso 2001 ; Sarnelli 2007, pp. 15-38.

[Scheda di Abbondio Zuppante – Ibimus; riduzione di Luciano Osbat-Cersal]