Gasbarrone (Gasperone, Gasparone), Antonio – Brigante (Sonnino, 12 dic. 1793 – Abbiategrasso, 1° apr. 1882).
Ancora ragazzino, alla morte del padre Rocco, lo sostituì nell’attività di pastore della mandria di vacche e cavalli, unico bene della famiglia composta dalla madre Faustina, dal fratello maggiore Gennaro (brigante nella banda dei Calabrese e consegnatosi alla Polizia nel 1814) e dalle sorelle Settimia e Giustina. A Sonnino conobbe e chiese in moglie Michelina Rinaldi, ma quando nel 1814 la famiglia della giovane si oppose al matrimonio G., fratello e cognato di amnistiati per brigantaggio, affrontò e uccise il fratello della ragazza. Da quel momento si diede alla macchia ed iniziò l’attività brigantesca.
Si affiliò dapprima alla banda di Luigi Masocco, poi a quella dei fratelli Gaetano e Pietro detti «Calabresi» che, giunti sulle montagne laziali al seguito delle truppe del cardinal Ruffo, erano sbandati nella parte meridionale dello Stato Pontificio. Si unì infine alla banda di Alessandro Massaroni e Bartolomeo Varrone, arrivando in breve tempo a prendere il comando della banda stabilitasi sui monti di Villa San Vito. Nel 1815 era già schedato come brigante; tra i segni distintivi erano gli orecchini d’oro a forma di navicella che era solito indossare, oltre che la consueta divisa del brigante laziale, con tanto di cappellaccio di feltro nero «tondo a cuppolone».
All’amnistia del 1818 si consegnò alle forze pontificie, che lo condussero a Roma dove per un anno fu rinchiuso a Castel S. Angelo. Al termine della detenzione romana fu inviato al confino a Cento, in Romagna, da dove riuscì a fuggire. Rientrato a Terracina, raggiunse Sonnino e riprese le razzie spingendosi fino alle piane d’Abruzzo. Eletto Leone XII e avviato il nuovo piano per la lotta al brigantaggio, fu più volte contattato dal vicario generale di Sezze don Pietro Pellegrini, il quale aveva avuto incarico di tentarne il ravvedimento. Proprio a Sonnino, d’altronde, nel 1821 era stata fondata la Casa dei missionari del Preziosissimo Sangue ad opera di san Gaspare Del Bufalo, figura di primo piano dell’azione della Chiesa nella lotta al brigantaggio nel Lazio meridionale. Il sacerdote, com’è noto, indicò con chiarezza come un intervento repressivo troppo severo avrebbe portato all’esasperazione la popolazione della zona, già troppo attratta dalla fama dei briganti che spesso rappresentavano agli occhi dei contadini l’incarnazione dell’eroe popolare che razzia i ricchi e difende i più poveri. G., in particolare, più di altri racchiudeva in sé tutte le caratteristiche che il mito popolare attribuiva alla figura del brigante: la capacità di sfuggire alla cattura, tentata più volte e con ogni mezzo, la bonomia e la generosità con cui trattava spesso la sua gente, la religiosità esibita, non facevano altro che fomentare la sua leggenda di «Forte» (così era conosciuto), la cui banda raggiungeva nel 1824 un totale di cinquanta banditi.
Nonostante gli scontri e i duri colpi inferti dall’azione dei soldati pontifici (G. rimase ferito più volte e fu spesso curato in casa di contadini), fu solo con l’amnistia del 1825 che la banda al completo (ormai ridotta a 24 elementi) si consegnò alle autorità; il contatto fu stabilito da monsignor Pellegrini il quale tramite le mogli di due carcerati promise ai briganti l’esilio in America (essi ricordarono successivamente l’episodio della consegna come un vero e proprio tradimento delle promesse fatte). Per pochi mesi reclusi a Castel S. Angelo, undici dei banditi tra i quali lo stesso G. furono trasferiti al carcere di Civitavecchia il 24 maggio 1826 e tradotti al Forte Michelangelo, dove abitualmente venivano rinchiusi i detenuti più pericolosi da tener separati dai comuni reclusi nel carcere della darsena. Separato dai suoi, G. ricevette un trattamento affatto diverso dagli altri, tutti condannati al carcere duro nonostante le promesse ricevute al momento della consegna alla gendarmeria pontificia. La sua cella, grande e arieggiata al secondo piano, era arredata e minimamente accessoriata; gli furono inoltre concesse quattro ore al giorno di passeggiata nei corridoi, contravvenendo così al regime d’isolamento cui formalmente era stato condannato fino al 1833. Sulla detenzione del brigante e sulle sue abitudini in carcere è fiorita una copiosa letteratura, spesso ricca di aneddoti, leggende e informazioni contraddittorie; tradizione vuole infatti che l’analfabeta G. in prigione si avvicinasse alla letteratura, in particolare quella francese.
Studiando la grammatica francese, arrivò addirittura a tradurre in italiano brani di opere classiche d’oltralpe. Il brigante in carcere riceveva numerose lettere e gli stranieri di passaggio da Civitavecchia chiedevano spesso di far visita all’illustre carcerato. Tra gli altri, Alexandre Dumas lo incontrò nel 1835 e lo stesso Stendhal, console francese a Civitavecchia per un decennio, arrivò ad ammettere che su cento stranieri che passavano da Civitavecchia, cinquanta chiedevano di vedere il brigante, cinque il console. Nel 1849 G. fu trasferito con i suoi al carcere della darsena e il 1° ottobre tutti furono ricondotti a Roma. Dopo due anni, i briganti vennero trasferiti alla fortezza di Civita Castellana dove rimasero fino al 1870, quando le truppe del Regno presero possesso della fortezza. Graziato da Vittorio Emanuele II (la sua detenzione come quella degli altri componenti della banda non era stata sancita con un processo) fece rientro a Roma; ormai ridotto all’accattonaggio, con alcuni dei compagni fu ricoverato in un istituto assistenziale di Abbiategrasso, dove morì. La sua popolarità tra i contemporanei, che vedevano in lui la perfetta incarnazione dell’eroe romantico che da malfattore si rivela vecchio e autorevole saggio, fu notevolmente accresciuta dai numerosi scritti che, già al tempo della detenzione, lo avevano reso noto.
La sua biografia, scritta dal compagno di scorrerie e di prigione Pietro Masi, della quale circolavano numerose versioni manoscritte, fu pubblicata per la prima volta a Parigi nel 1867 dal libraio editore Dentu quando il brigante era ancora detenuto nelle carceri di Civita Castellana; alla prima edizione francese con il titolo Le brigandage dans les Etats Pontificata. Memories de Gasbaroni célèbre chef de bande de la province de Frosinone, rédigés par Pierre Masi son compagnon dans la montagne et dans la prison. Traduits, d’apres le manuscrit originai, par un officier d’Etat-Major, de la Divisione d ’occupation a Rome (Paris, Dentu, 1867) seguirono numerose riedizioni che si succedettero in Italia fino alla metà del XX secolo (nel 1887 l’editore Perino pubblicò a dispense settimanali Vita di Antonio Gasbaroni, terribile capo di briganti, scritta in carcere da Pietro Masi da Patrica che fu ristampata poco dopo per il successo conseguito).
BIBL. – Lodolini 1960, pp. 189, 190-191 (con rif. alle fonti d’archivio e bibl.); Giammaria 1983, pp. XVI, XVIII; Colagiovanni 2000, pp. 150-151, 236-237, 378-382, 444 n. 114, 452 nn. 168 e 169 (con rif. alle fonti d’archivio e bibl.); De Matteo 2000, pp. 97-99; De Paolis 2000, pp. 171-179; Berti 2001.