Remani, Stefano – Ecclesiastico (Scutari, 19 nov. 1719 – Roma, 1799)

Era figlio di  Andrea ed era  nato il 19 novembre 1719 e aveva studiato per sette anni nel Collegio illirico di Loreto destinato ai seminaristi provenienti dalla penisola balcanica. La famiglia di sua madre era importante tra quelle che componevano il gruppo dei cattolici in quell’area a nord dell’Albania, allora possesso mussulmano. Dopo essere stato ordinato sacerdore era ritornato in Albania nella Diocesi di Scutari dalla quale proveniva. Nel 1754 il vescovo di Scutari, Paolo Campsi (V.) lo aveva trasferito dalla sua parrocchia, così come aveva fatto con altri sacerdoti, per contrasti con i fedeli o per abusi commessi. Stefano, che era nipote dell’Arcivescovo di Antivari Lazzaro Vladagni (V.)  dalla quale quella di Scutari dipendeva, non accettò la disposizione del suo vescovo e se ne andò prima a Ragusa e poi venne a Roma dove era stato convocato dalla Congregazione di Propaganda Fide per difendersi dalle accusa che gli erano state mosse. Le sue ragioni non furono accolte e gli fu ordinato di non ritornare in Albania. In quei mesi era stata preparata l’emigrazione di una quarantina di famiglie albanesi che da Bria, nella diocesi di Scutari, erano giunti ad Ancona il 19 marzo 1756 e da lì, dopo la necessaria quarantena, furono condotte a Canino dove arrivarono il 5 giugno 1756 e trovarono provvisoria sistemazione in attesa del trasferimento a Pianiano, sempre nella diocesi di Acquapendente, dove era stato promesso loro che si sarebbero potute stabilire. Dopo di ciò Stefano Remani fu scelto come Direttore spirituale e interprete degli Albanesi ed ebbe, per tale ragione, un emolumento da parte della Curia romana pur rimanendo sempre a Roma senza svolgere nessuna incombenza a pro degli albanesi.  Nel racconto di queste vicende fatto da Stefano successivamente si dice che la fuga fu organizzata dalla sua famiglia e a sue spese tanto da ridurla quasi sul lastrico.

Nel 1760 la maggior parte degli Albanesi davanti alle difficoltà che avevano incontrato, presero la decisione di lasciare lo Stato pontificio per trasferirsi nel Regno di Napoli, a Poggio, in Puglia, dove sembravano esserci condizioni migliori. E per alcuni mesi lasciarono tutto quello che avevano e la maggior parte di loro si mise di nuovo in viaggio salvo poi, dopo poco, ricredersi e ritornare di nuovo a Pianiano. Il ritorno in terra di Tuscia non fu agevole e complesso fu anche il ripristino di condizioni accettabili con la Reverenda Camera Apostolica e con l’affittuario di quelle terre (che era allora Filippo Stampa) per la definitiva sistemazione  che alla fine fu siglata da un atto del 1771 che mise la parola fine alla questione. Si trovò anche un modus vivendi con gli abitanti di Cellere (di cui Pianiano era parte) che non avevano mai tollerato l’arrivo degli Albanesi che aveva tolto loro la fruizione di terreni che prima erano solo a loro disposizione. Stefano fu di un qualche aiuto alla comunità albanese nelle trattative con la Curia romana e con l’affittuario in queste vicende e, per questo, chiese una ricompensa sia da parte dei suoi connazionali che dalla Congregazione di Propaganda Fide. Proprio negli anni del definitivo ritorno a Pianiano, 1761-1762, il Remani fece stipulare degli atti con i quali gli Albanesi si impegnavano nei suoi confronti sia per quanto aveva dovuto spendere per la loro emigrazione in Italia sia per le vicende successive del ritorno dopo la fuga in Puglia: l’impegno consisteva  nella cessione di  una porzione dei terreni che avevano ricevuto e dieci rubbi di grano all’anno per cinquanta anni. Queste pretese di Stefano furono ribadite in un atto del 1773 del notaio Egisti di Ischia di Castro che chiese l’esecuzione degli atti del 1761-1762 redatti dal notaio Ilario Carrocci di Viterbo. Cominciò una lite che vide da un lato Stefano Remani e il fratello Nicola, figli di Andrea, e dall’altra parte gli Albanesi insieme con Giovanni Sterbini che era il loro nuovo Difensore a sostenere le loro ragioni. La causa si protrasse dal 1773 al 1803 danti alla Sacra Rota e si concluse con la sconfitta degli Albanesi che furono costretti a cedere gran parte dei terreni che avevano avuto in enfiteusi in sostituzione del denaro che i ricorrenti reclamavano. La conclusione della causa fu all’origine della fine del trapianto degli Albanesi a Pianiano. Furono costretti ad andarsene per trovare lavoro come braccianti o dipendenti di altri proprietari nei comuni vicini. Nel 1844 delle famiglie albanesi arrivate nel 1756 a Pianiano non ne rimanevano che tre, una delle quali era quella che aveva ereditato i beni che erano stati rivendicati da Stefano  (il quale nel frattempo era morto) e che erano stati ottenuti dai suoi eredi.

BIBL. – I. Sarro, L’insediamento albanese di Pianiano, Nardò, 2021, passim; G. Ribeca, Una colonia albanese in Pianiano (Tesi di laurea presso l’Università di Roma, 1948); E.. Angelucci, Gli Albanesi a Pianiano, in “Biblioteca e Società”, vol. XVI, 1985-1986; M. Lotti, La colonia albanese del Castello di Pianiano. 1756-1845, Vetralla 2016, passim.

[Scheda di Luciano Osbat – Cersal]