Giovannetti, Matteo – Pittore (Viterbo, secc. XIII-XIV).

Nato alla fine del sec. XIII, intraprese la carriera ecclesiastica e fu pittore eminente nel­l’ambito della corte pontificia. I documenti scritti lo ricordano come canonico presso la scomparsa chiesa di S. Luca a Viterbo (1322; 1328), priore del­la vicina abbazia di S. Martino a Fontana Grande (1336), quindi arciprete di Vercelli e pictor pape (1348). Non sono note la sua formazione e la sua at­tività nella città d’origine; qui il suo stile pittorico è richiamato in un affresco nel presbiterio di S. Francesco rappresentante san Giovanni Battista, e in un Angelo e in una Crocifissione con santi ri­spettivamente nella casa parrocchiale e nella chie­sa di S. Maria Nuova, opere tuttavia più probabil­mente assegnabili a un suo seguace. Anche l’affre­sco situato sulla facciata di S. Andrea, rappresen­tante la Madonna che allatta il Santo Bambino, è attribuito con beneficio del dubbio a Matteo. Le sue esperienze artistiche iniziate tra il 1320 e il 1322 in alcune chiese del Lazio (si ricordi l’Apparizione di Cristo ad una santa nella chiesa di S. Cristina a Bolsena) si arricchirono nella fabbrica del duomo ad Orvieto, centro di maturazione e irradiazione del gotico italiano all’inizio del Trecento.

Qui entrò in contatto con Simone Martini, che rincontrò ad As­sisi, dove era occupato nella decorazione della ba­silica inferiore insieme a Pietro Lorenzetti. G. fu fortemente interessato dal senso di spazialità e dal­l’elegante linearismo di questi due maestri senesi, che seguì a Siena, dove probabilmente conobbe Ambrogio Lorenzetti. La pittura di quest’ultimo fu fondamentale per la definizione del suo stile, del senso di spazialità e della «capacità di rappresenta­re le azioni e la natura» (Angelelli, p. 507), elementi che trovano piena espressione nelle sue ope­re avignonesi. Ad Avignone G. è attestato a partire dagli anni Quaranta del Trecento. In un documen­to del 22 sett. 1343, compare per la prima volta in un pagamento per l’acquisto di colori pro pingenda guardarauba pape (Karl H. Schäfer, Die Ausgaben der Apostolischen Kammer unter Benedikt XII., Kle­mens VI. und Innocenz VI. 1335-1362, Paderborn, 1914, p. 254), da mettere secondo alcuni in rela­zione con la decorazione della cosiddetta camera del Guardaroba ad Avignone, caratterizzata da un forte senso naturalistico e spaziale, seppure per al­tri questa attribuzione rimane dubbia.

Fu probabil­mente proprio il Martini, che già lavorava nel pa­lazzo avignonese, a indicarlo come il più idoneo per le imprese artistiche che si stavano progettando nella residenza pontificia. Posto a capo di una bot­tega composita (in cui ricorrono nomi quali Barto­lomeo di Marsiglia, Domenico de Bellona, Pietro da Viterbo e Robin de Romans) G. divenne, dopo la morte di Martini (1344), il grande regista delle im­prese pontificie. Fu protagonista di uno straordina­rio ventennio artistico, sapendo coniugare la capa­cità di modellazione propria della pittura senese con le eleganze gotiche francesi e dando vita a una nuo­va maniera più tardi ripresa in tutta Europa dalla pittura cortese e dagli artisti del gotico internazio­nale. Tra il 1344 e il 1348 tra i numerosi lavori a cui attese nel palazzo realizzò: la decorazione del­la cappella di S. Michele con storie di angeli e di quella di S. Marziale con storie del santo evange­lizzatore dell’Aquitania, caratterizzate da una sicu­ra definizione dello spazio arricchito di connota­zioni naturali e di un senso di osservazione del vero; l’ampia decorazione della sala del Concisto­ro, distrutta da un incendio, e la cappella di S. Gio­vanni, ove l’immagine dall’approfondita analisi fi­sionomica e psicologica dei personaggi si fonde con la parola scritta.

Negli anni successivi il pro­cesso di saldatura tra la tradizione senese-martiniana e quella di matrice gotica francese ricevette un ulteriore sviluppo nelle perdute Storie di S. Rober­to, dipinte nell’abbazia dedicata al santo a La Chai­se-Dieu, e nelle figure dei Profeti, re e sibille, rap­presentate nella volta della cosiddetta Grande Udienza voluta da Clemente VI, quale addizione al più vecchio palazzo di Benedetto XII. Un inventario pontificio del 1355 documenta probabilmente l’ul­timo ciclo di affreschi realizzato da Matteo per vo­lere di papa Innocenzo VI nella cappella della cer­tosa di Villeneuve. In questo ciclo è forte il senso narrativo in un ambiente attentamente indagato nel­le sue leggi spaziali e prospettiche. Non rimane traccia invece degli affreschi, che lo videro impe­gnato dal 1365 al 1366 nella decorazione dell’ap­partamento Roma nella nuova ala del palazzo avignonese voluta da Urbano V. Né possiamo cono­scere lo stile delle 56 tele dipinte con scene della vita di san Benedetto per l’omonimo collegio di Montpellier al prezzo di 1760 pezzi d’oro zecchino. Fu questo il suo ultimo lavoro in Francia: il 30 apr. 1367 il papa ritornò a Roma, seguito da Matteo, che iniziò a decorare nel gen. 1368 delle sale in Vati­cano, senza tuttavia poterle portare a compimento; morì a Roma nel 1369/1370.

BIBL. – Polo 1990; Castelnuovo 1991; Walter Angelelli in DBI, 55, pp. 506-510 (con fonti, bibl. e catalogo delle opere mobili di G.).

[Scheda di Silvia Panti – Srsp]