Maidalchini Olimpia – Principessa (Viterbo, 26 mag. 1591 – San Martino al Cimino, 26 sett. 1657).

Figlia di Sforza e di Vittoria Gualtieri, rap­presentò nell’immaginario e nelle memorie roma­ne, laziali ed europee una figura quasi leggendaria di donna imperiosa, sovrana della corte pontificia, raffigurata come papessa con il triregno in capo nel­le vignette della propaganda luterana e antipapista dell’epoca. Dopo un breve periodo di educandato nel monastero viterbese di S. Domenico, sposò in prime nozze il nobile viterbese Paolo Nini (Viterbo, chiesa di S. Sisto, 29 sett. 1608), avendone i picco­li Costanza e Nino, ma padre e figli morirono a bre­ve distanza l’uno dall’altro nel 1611. L’anno dopo la giovane vedova sposava (Viterbo, S. Sisto, 1° nov. 1612) il romano Panfilo Pamphili, di ricca e importante famiglia originaria di Gubbio come i Maidalchini. La conoscenza fu certo favorita dalla parentela acquisita con Antonina Pamphili, moglie di Paolo Gualtieri, zio materno di Olimpia.

Panfilo

[o Panfilio], nato nel 1564, era un «gentiluomo se­rio e di molta stima» nella corte romana, dove la sua famiglia si era grandemente affermata con lo zio cardinal Girolamo (m. 1610), «alunno di san Fi­lippo Neri e amico del Baronio». Il fratello di Pan­filo, Giovanni Battista, era all’epoca prelato, udi­tore di Rota, stimatissimo per costumi, rigore e competenza giuridica. L’ascesa del monsignore suo cognato segnò le crescenti fortune di Olimpia e del­la sua famiglia. Dopo la nunziatura a Napoli, men­tre il fratello e Olimpia vivevano a Roma nella casa di famiglia tra piazza Pasquino e piazza Navona, Giovanni Battista ottenne la porpora cardinalizia (1629). Dieci anni dopo Olimpia rimase vedova per la seconda volta (28 ago. 1639), ma il grande affet­to che il cognato nutriva per lei e lo straordinario ascendente che ella seppe quasi sempre mantenere sul suo animo la mantennero in Roma accanto al cardinale.

Il 15 sett. 1644 il cognato di Olimpia di­venne papa, assumendo il nome di Innocenzo X . Da allora Olimpia agì da first lady della città e dello Stato, guidando con polso fermo l’esaltazione di casa Pamphili, senza trascurare la fortuna dei suoi parenti di sangue viterbesi. Con chirografo del 7 ott. 1645 Innocenzo X autorizzò il capitolo della Basilica Vaticana alla permuta della terra di San Martino sui Monti Cimini con la tenuta di Prescia­no presso Velletri di proprietà di Olimpia; un mese dopo San Martino era eretta in principato a favore di Olimpia, di suo figlio Camillo Pamphili e della loro discendenza, con il peso del restauro della chiesa abbaziale, ma insieme con il patronato sulla medesima abbazia e sulla chiesa romana di S. Agnese in Agone con l’attiguo Collegio Innocenziano ivi fondato (14 nov. 1645); il papa inoltre as­segnò a Olimpia una pensione di 250 scudi mensi­li dalla tesoreria segreta «per sovenimento suo e della famiglia» (22 ag. 1645). L’Abbazia fu dichiarata “nullius”, cioè con piena giurisdizione ecclesiastica, e affidata da un protonotario apostolico di fatto indicato da Olimpia; dal 1649 fu data in commenda al cardinale Francesco Maidalchini.

La dama fu dunque al centro della vita politica ed anche mondana del­la capitale, invitata da cardinali e principi a rappresentazioni teatrali, festini, concerti, omaggiata da­gli ambasciatori ed ella stessa patrocinatrice di ar­tisti, in particolare di compagnie di comici dell’ar­te («istrioni», tutt’altro che frequenti a Roma). I la­vori a San Martino al Cimino furono affidati da Olimpia a Francesco Borromini e altri artisti; il re­stauro dell’antica chiesa cistercense e del palazzo abbaziale (quasi completamente ricostruito come palazzo baronale) fu compiuto nel 1647, in forme magnifiche, realizzando altresì, per opera di Mar­cantonio de Rossi e di altri architetti, un esemplare modello urbanistico di insediamento con case, piaz­ze, vie organicamente disposte intorno al grande complesso abbaziale. Il compimento dell’opera è ricordato da una grande iscrizione fatta porre dalla principessa sul pavimento della chiesa abbaziale (1647).

Olimpia aveva avuto tre figli, un maschio e due femmine: per Camillo, nominato generale di San­ta Chiesa pochi giorni dopo l’esaltazione al ponti­ficato dello zio, la madre ottenne ben presto la por­pora cardinalizia e gli incarichi tipici di un «cardi­nal nipote» (14 nov. 1644); per suo tramite Olimpia poteva così controllare tutti gli affari della Curia e dello Stato. Perciò la rinuncia del figlio al cardina­lato dopo poco più di due anni perché innamorato suscitò lo sdegno della madre e il suo odio per la nuora Olimpia Aldobrandini. Delle figlie, Olimpia diede Costanza in sposa (21 dic. 1644) al ricchissi­mo principe Nicolò Ludovisi, mentre la primoge­nita Maria aveva già sposato il principe Andrea Giustiniani. Dei parenti di sangue rese marchese il fratello Andrea e cardinale il giovane e immaturo nipote Francesco.

Scontenta della confusione re­gnante in piazza Navona, sede del più grande mer­cato cittadino, ne ottenne lo sgombero, rendendo la piazza quasi un magnifico spazio annesso al suo pa­lazzo, ma suscitando velenose pasquinate. Le liti con il figlio Camillo e soprattutto l’ostilità di alcu­ni cardinali e di parte dei prelati di Curia, impres­sionati dalla feroce propaganda protestante che nel­la presenza di Olimpia trovava alimento, incrinaro­no i rapporti tra l’energica donna e il cognato pon­tefice, che toccarono un punto di maggior raffred­damento in coincidenza dell’anno santo 1650. Ani­ma dell’ostilità nei confronti della «Pimpaccia» era il cardinal Panciroli, segretario di Stato, il quale ot­tenne che un personaggio minore, il prelato Camil­lo Astalli, lontano parente di Olimpia, fosse dichia­rato nipote dal papa con l’attribuzione degli incari­chi di «Cardinal padrone» (19 sett. 1650). Donna Olimpia se ne sdegnò, rifiutando anche una sua visita di cortesia. Ma Astalli non corrispose alle spe­ranze in lui riposte da Panciroli e l’influenza di Olimpia su Innocenzo X tornò in breve a farsi sen­tire. Nel 1652 ella ottenne, secondo un disegno a lungo perseguito, la riconciliazione tra il papa e i Barberini, sigillata dalla parentela tra le due stirpi con le nozze del giovane Maffeo Barberini con Olimpiuccia Giustiniani, la sua nipotina preferita.

Dal marzo 1653 Olimpia era ormai tornata nelle piene grazie del papa e la disgrazia in cui cadde il cardinal Astalli, scacciato da palazzo nel febbr.1654, apparve il definitivo trionfo della gran don­na. Al principato di San Martino, Innocenzo X ag­giunse il 10 gennaio di quell’anno a favore della cognata la terra di Petrignano, ricco complesso di tenute già della famiglia viterbese Cordelli, cui la Camera Apostolica l’aveva confiscata nel 1641. Tre mesi dopo Olimpia acquistò anche i feudi di Mon­te Calvello, Grotte Santo Stefano e Vallebona, già sequestrati per debiti al marchese Raimondi (atti not. Simoncelli del 30 apr. 1654 autorizzati con chi­rografo papale del 31 marzo). Quasi a festeggiare l’«idillio», ella ospitò il papa a San Martino in quel­la primavera e Innocenzo X fu straordinariamente contento di quel soggiorno, donandole a Viterbo il cosiddetto Palazzo dell’Abate presso Porta S. Pie­tro. La morte di Innocenzo (7 gen. 1655) segnò la fine della potenza di donna Olimpia. Prima ancora di riunirsi in conclave, i cardinali presero provve­dimenti rigorosi. Monsignor Ariberti, governatore di Roma protetto da Olimpia, fu cacciato tra le bef­fe del popolo; anche i suoi figli e il nipote cardinal Maidalchini le erano lontani e nemici.

Il nuovo papa Alessandro VII la relegò a San Martino con la proibizione di tornare a Roma dove i suoi favoriti di un tempo venivano epurati o la tradivano. Quando nella mente di papa Chigi si delineò il grande pro­getto di accogliere a Roma Cristina di Svezia abiu­rante il luteranesimo, i provvedimenti si fecero molto più rigidi: di Olimpia e dei suoi eccessi non dovevano rimanere tracce a Roma. Così, di fatto prigioniera e inquisita, Olimpia visse la fase con­clusiva della sua vita nel palazzo che ella stessa aveva eretto a San Martino. Ivi morì con sospetto di peste, proprio quando la terribile epidemia che ave­va infierito per un anno era ormai quasi del tutto scomparsa e fu sepolta nella chiesa abbaziale.

BIBL. e FONTI – AVR, Parr. di S. Lorenzo in Damaso, “Stati delle Anime 1628-1648”. Ciampi 1877; Silvestrelli, pp. 716-­723; Pastor, XIV/1, passim; Brigante Colonna 1941; Gigli 1958, pp. 332, 417, 420, 432; Signorelli 1968, pp. 75-93; Bentivoglio – Valtieri 1973, passim; Chiomenti Vassalli 1979; Cavoli 1992; Imago pietatis: 1650. I Pamphili a San Martino al Cimino, Roma, 1987; Giulia Petrucci, San Martino al Cimino, Roma, Multigrafica 1987; Angeli 2003, p. 294; La chiesa abbaziale di San Martino al Cimino e il Museo dell’Abate, a cura di Giorgio Capriotti e Maria Ida Catalano, Viterbo 2011.

[Scheda di Saverio Franchi – Ibimus; integrazione di Luciano Osbat]