Barberini – Famiglia (Roma, secc. XVI-XVIII)
Famiglia patrizia romana, originaria della Toscana (Barberino Val d’Elsa), dal sec. XIII stabilita in Firenze, dal 1530 in Roma con il mercante Antonio (legato alla caduta repubblica e nemico dei Medici), poi ascesa a primaria importanza con il cardinal Maffeo, eletto nel 1623 papa Urbano VIII. Volendo quel pontefice eguagliare la propria famiglia alla più grande nobiltà romana, favori oltremodo i propri parenti, consentendo loro non solo di aver peso determinante nelle vicende dello Stato della Chiesa e sterminate ricchezze in Roma, ma anche di costituire una solida presenza feudale e signorile nel Lazio. A tale presenza è dedicata questa voce, mentre per le notizie generali sulla famiglia e sui singoli membri si rinvia alla letteratura storica, critica e biografica citata in Bibl.
Il primo B. ad essere titolare di feudi laziali fu il fratello del papa, Carlo (1562-1630), già accorto amministratore dei suoi affari e poi donatario di tutti i suoi beni. Subito nominato generale di S. Chiesa, acquistò dapprima la tenuta di Tor Vergata dall’enfiteuta Girolamo Giustini e il piccolo feudo di Roviano ma mirando a un dominio di maggiore importanza ottenne da un ramo degli Orsini la metà del feudo di Monterotondo; l’altra metà era stata sequestrata nel 1604 dalla Camera Apostolica agli stessi Orsini, che avevano interposto ricorso e che ora con Carlo si erano impegnati a cedergli tutto in caso di vittoria; l’immediato esito favorevole portò quindi all’annullamento della devoluzione all’erario e al nuovo e definitivo atto di acquisto da parte di Carlo. Monterotondo fu allora eretto in ducato per Carlo e discendenti, che favorirono quella cittadina e i suoi abitanti. Oltre ai feudi, Carlo badò anche a procurarsi ampie proprietà agricole presso Roma, che fornissero alla sua casa una ricca rendita: così acquistò dai Del Bufalo la tenuta di Ciampiglia sulla Salaria e da Clarice Palombara vedova Savelli quella di Fonte di Papa sulla Nomentana (1629), rimaste ai B. fino al 1696. Intanto l’esempio del contestabile fu seguito dall’altro ramo dei Colonna, che si indusse a cedere ai B. il grande feudo di Palestrina, loro dominio da oltre mezzo millennio, insieme al titolo principesco che lo decorava. Carlo potè allora insignirsi del titolo di principe di Palestrina; come tale fu omaggiato dal poeta Ottavio Tronsarelli nel componimento per musica Preneste. Ma poco sopravvisse all’evento: recatosi a Bologna, vi morì all’improvviso il 25 febbraio; la salma, trasportata a Roma, fu sepolta nella cappella di famiglia in S. Andrea della Valle, da lui stesso eretta. Da Carlo e da Costanza Magalotti nacquero sei figli; i tre maschi ebbero tutti una presenza significativa nel Lazio.
Il primogenito Francesco (1597-1679), nominato cardinale il 2 ott. 1623, fu figura di grande rilievo per la storia e per la cultura di quell’età. Limitandoci al Lazio, fu per molti anni governatore di Tivoli (1624-1632, 1634-1644), ufficio ovviamente esercitato non di persona ma tramite vicegovernatori; più importanti le dignità di abate commendatario di Grottaferrata (dal 1626 alla morte), di Farfa (dal 1628 al 1666), di Casamari (dal 1633 alla morte). Di Farfa si ricordò facendo inserire l’intermedio La fiera di Farfa nel dramma musicale Chi soffre speri (poesia di Giulio Rospigliosi, musica di Marco Marazzoli, scene di Gian Lorenzo Bernini), rappresentato a Roma a sue spese nel 1639. Finanziò il restauro della chiesa rurale di S. Maria di Trasponte presso Fiano, come ricorda un’iscrizione ivi apposta (1630); curò la collocazione del grande mosaico nilotico di Palestrina nel palazzo baronale della cittadina, dov’è tuttora conservato, affidando la delicata operazione a Pietro da Cortona (1640). Nel momento di disgrazia politica della famiglia, dovendo ingraziarsi il nuovo papa Innocenzo X, che aveva duramente perseguitato i B., ritenne opportuno vendere un complesso di feudi (Valmontone, Lugnano, Montelanico e annesse tenute) al nipote di Innocenzo, Camillo Pamphili; pochi anni dopo, conclusa la pacificazione con i Pamphili e ritornato in auge nella corte pontificia, acquistò da Tomaso Mareri il feudo di Marcitelli, includendolo nella baronia di Collalto Sabino. Anche come ecclesiastico agì nel Lazio: fu cardinal vescovo della Sabina (dall’ott. 1645 al sett. 1652), poi di Porto (sett. 1652 – ott. 1666), poi di Ostia e Velletri (dall’ 11 ott. 1666 alla morte). Morì a Roma nel palazzo della Cancelleria, dove visse per la maggior parte della vita, e fu sepolto nella tomba dei canonici di S. Pietro in Vaticano (di cui era arciprete), con iscrizione onorifica e monumento erettogli dal nipote Maffeo.
Il secondo nipote di Urbano VIII, Taddeo (1603-1647), fu destinato dallo zio a fondare una stirpe principesca, ciò che avvenne mediante il suo matrimonio con la figlia del contestabile Filippo Colonna, Anna (1601-1658); le nozze furono celebrate dallo stesso papa, nella cappella del palazzo di Castelgandolfo (24 ott. 1627), e festeggiate solennemente nel feudo colonnese di Marino. Su Taddeo si concentrarono tutti i titoli feudali, militari e cavallereschi man mano acquisiti dalla famiglia: principe di Palestrina, duca di Monterotondo e generalissimo di S. Chiesa alla morte del padre, fu poi prefetto di Roma (dal 1631), governatore di Civitavecchia (1634-1644), Grande di Spagna, cavaliere del Toson d’Oro. Ma soprattutto si accrebbero i suoi possessi nel Lazio: a nord di Roma acquistò da Giovan Paolo e Vincenzo Baglioni il feudo di Sipicciano (nella Tuscia, genn. 1633, pochi anni dopo venduto a Prospero Costaguti), dall’Archispedale di S. Spirito la tenuta di Santa Marinella, da Nicolò Soderini la baronia di Collalto Sabino (30 maggio 1641, acquisto fatto dal cardinal Francesco), da Ferdinando Orsini lo «stato» di Montelibretti (comprensivo dei comuni di Corese
Una predilezione ebbe Taddeo per Santa Marinella, all’epoca solo tenuta agricola, priva di un centro abitato, i cui primi edifici sorsero proprio ad opera dei B. Aveva una certa importanza marittima e militare per la presenza di una torre di avvistamento, i cui custodi venivano nominati da Taddeo (breve papale del 15 marzo 1638), e di una rocca, da lui rinforzata con lavori edilizi e rifornita di armi e attrezzature. Come governatore di Civitavecchia, nel cui territorio Santa Marinella era compresa, il principe ebbe modo di favorire in più modi il commercio dei prodotti della propria tenuta, ottenendo la concessione di libertà di esportazione («tratta») con nuovo breve papale (21 ag. 1638). L’afflusso di capitali gli consentì di avviare i lavori per un molo: in prospettiva Santa Marinella avrebbe potuto fare concorrenza alla stessa Civitavecchia. Il progetto di sviluppo di Santa Marinella venne a cadere alla morte di Urbano; anzi il molo fu fatto demolire da Innocenzo X nel 1645. Pochi mesi dopo, per sottrarsi alla devastante inchiesta ordinata dal nuovo papa, Taddeo fuggì in Francia con i figli e con il cardinal Francesco; ivi morì in esilio. Tredici anni dopo la salma fu portata in Italia e tumulata nella collegiata di Monterotondo (1660); poi ancora spostata nella chiesa dei Cappuccini di Palestrina (1668), infine sepolta a Palestrina nella chiesa di S. Rosalia, accanto al palazzo baronale, con busto commemorativo di Bernardino Cametti (15 nov. 1704).
Il terzo nipote di Urbano VIII, Antonio (1608-1671), nominato cardinale il 7 feb. 1628, gran mecenate artistico e anima politica degli ultimi anni di pontificato dello zio, ebbe una presenza nel Lazio meno importante dei fratelli, tuttavia non trascurabile. Oltre che governatore di Tivoli ( 1632-1634) e di Viterbo (1643-1644), dal 1633 alla morte fu abate commendatario di Subiaco, nonché dell’abbazia delle Tre Fontane, che nel Lazio aveva notevoli possessi. Insieme al fratello Francesco ebbe dal 1632 in comodato la villa di Bagnaia, presso Viterbo, e amò soggiornarvi per partite di caccia. Nel gen. 1634, constatato il cattivo stato del campanile del vicino santuario della Madonna della Quercia, ordinò a quei frati domenicani di non suonare le campane e poi vi inviò l’architetto Paolo Marucelli: il campanile fu demolito e ricostruito. Nello stesso 1634 fece eseguire a Bagnaia un’ode latina per musica, in occasione della laurea di Carlo dei conti di Marsciano.
Taddeo come Capitano generale e poi Antonio come Sovrintendente generale dell’esercito furono alla testa delle truppe pontificie impegnate nella Prima guerra di Castro (1641-1644) che vide Viterbo come luogo di reclutamento e di concentrazione delle truppe. La Guerra, sorta anche per la rivalità tra Barberini e Farnese, aveva però questioni economico-finanziarie all’origine in particolare per le garanzie del Monti di pegno dei Farnese che improvvisamente erano venute a mancare per la stretta imposta dai Barberini. Le vicende militari furono un completo insuccesso e provocarono un vuoto nelle casse dello Stato ben maggiore dell’insolvenza temuta dei Monti farnesiani.
Nell’ottobre 1655 era divenuto cardinal vescovo di Frascati, dove promosse un sinodo diocesano, pubblicandone gli atti (1658). Nel giugno 1660 vi consacrò la nuova chiesa dei Camaldolesi, sulla strada per Tuscolo. Infine, dal 21 nov. 1661 alla morte fu cardinal vescovo di Palestrina, unendo l’autorità ecclesiastica a quella civile ivi già detenuta dalla sua famiglia.
Dei figli del principe Taddeo, il maggiore, Carlo (1630-1704), fu cardinale (23 giugno 1653) e si mantenne sempre vicino allo zio Francesco, che nel 1666 gli cedette la commenda dell’abbazia di Farfa. Con la morte degli zii, ebbe anche le abbazie di Subiaco (dal 1671) e di Grottaferrata (dal 1679). A Farfa celebrò un sinodo del clero di tutto il territorio sottoposto all’abbazia e a quella ad essa incorporata di San Salvatore Maggiore (dal 3 al 6 giugno 1685), sinodo molto lodato, i cui atti fece stampare l’anno dopo, aggiungendovi nel 1688 una propria lettera pastorale (Lettera pastorale alli vicarii foranei delle diocesi dell’abbazie di Farfa e di S. Salvatore Maggiore, Roma, nella Stamperia Barberina, per Domenico Antonio Ercole, 1688). Come suo padre, amò Santa Marinella, a più riprese conducendovi lavori al castello (1667, 1697) ed ospitandovi papa Innocenzo XII in viaggio per Civitavecchia (7 maggio 1696). Pochi mesi dopo, poiché suo nipote Urbano, titolare di quel feudo, era oppresso dai creditori e perciò c’era il rischio di un sequestro, ne sottoscrisse un formale acquisto. Come signore di quella terra, istituì un posto stabile di cappellano nella vecchia chiesa parrocchiale ( 1703). Morì a Roma dopo grave malattia e fu sepolto in S. Andrea della Valle; lasciava Santa Marinella e gli altri suoi beni al futuro primogenito della famiglia, con amministrazione e usufrutto a favore del nipote cardinal Francesco junior.
L’altro figlio di Taddeo, Maffeo (1631-1685), fu principe di Palestrina e titolare degli altri feudi di famiglia. Nel 1653 sposò Olimpia Giustiniani (1641-1729), pronipote di Innocenzo X: le nozze sancivano l’avvenuta pacificazione tra i B. e i Pamphili. Nel 1659 fece costruire, accanto al palazzo di Palestrina , una bella chiesa intitolata a santa Rosalia, compatrona della città; architetto ne fu Francesco Contini. La chiesa divenne il mausoleo di casa Barberini e ne contiene le tombe. Pure a santa Rosalia fece intestare una chiesa rurale, eretta per i lavoratori delle campagne intorno a Palestrina. Intanto accresceva il patrimonio familiare acquistando da Domitilla Cesi i castelli di Oliveto e Posta (oggi Posticciola) in Sabina, che in seguito rivenderà al marchese Santacroce (1682), e dal duca Pietro Altemps la tenuta di Santa Colomba presso Monterotondo. Santa Colomba, già desiderata da suo padre Taddeo, confinava con Valle Ornara, già dei Barberini. Questo secondo acquisto, anteriore al 1678, gli consentì dunque di unire in un solo blocco i vasti possessi della Marcigliana con il feudo di Monterotondo, creando un continuum di territorio, con efficace articolazione di colture e altre destinazioni. Morì nel palazzo B. di Roma e fu sepolto a S. Andrea della Valle.
Suo successore nei titoli e nei feudi fu il figlio Urbano (1664-1722), che nel 1690 sposò Cornelia Zeno Ottoboni, pronipote di papa Alessandro VIII; morta Cornelia dopo un solo anno di matrimonio, si risposò nel 1693 con la principessa Felice Ventimiglia, nipote del nuovo papa Innocenzo XII; ma i rapporti tra i coniugi furono cattivi e giunsero alla divisione, nonché a violenze fisiche e morali, per le quali Urbano fu arrestato e poi esiliato da Roma, dove poté tornare alla morte di Felice (1709). Non avendo figli (l’unico gli era morto nel 1703), si risposò per la terza volta (1714) con Maria Teresa Boncompagni (1692-1744); anche da queste nozze non ebbe il sospirato erede maschio, ma solo la femmina Cornelia Costanza, della quale si dirà appresso. Sempre assediato dai creditori, fu anche costretto a vendere Santa Marinella allo zio cardinal Carlo per evitarne il sequestro giudiziario (1696). Fu sepolto a Palestrina nella chiesa di S. Rosalia.
In più modi tentò di arginare gli effetti di questa disastrosa vita il fratello maggiore Francesco (1662-1738, detto Francesco junior per distinguerlo dal prozio), cardinale dal 1690. Educato dallo zio Carlo, fu suo successore come abate commendatario di Subiaco, Farfa e Grottaferrata (dal 1704), nonché come signore di Santa Marinella. Alla morte di Urbano (27 sett. 1722) entrò in lite con la cognata Maria Teresa Boncompagni per avere la tutela della piccola Cornelia Costanza, ultima dei B. Anche in questo caso il tribunale della Rota giudicò in suo favore con sentenza definitiva del 23 nov. 1725. Fu così di fatto per alcuni anni il signore di tutto il patrimonio B.; di Palestrina era anche cardinal vescovo (dal 1721 al 1726). Fu poi cardinal vescovo di Ostia e Velletri (dal 1726 alla morte), a Velletri ricevendo il papa nel maggio 1727. Dei feudi di famiglia fu accorto amministratore. La sua principale cura fu il futuro della casata B. Nonostante la volontà contraria della madre e della nonna, volle che la nipote Cornelia Costanza si sposasse con il figlio del principe Colonna di Carbognano. Le nozze si celebrarono il 19 maggio 1728, per procura essendo lo sposo colonnello in Spagna ed avendo la sposa meno di dodici anni. I patti nuziali implicavano che il futuro secondogenito avrebbe portato il cognome B., ereditandone titoli e patrimonio. Queste nozze suscitarono un vespaio, anche politico: Francesco cadde in disgrazia presso l’imperatore Carlo VI; la vicenda fu romanzesca, giacché egli fece giungere dalla Spagna lo sposo, Giulio Cesare Colonna, e lo nascose nella propria abbazia di Subiaco; poi trovò modo di far unire i due impazienti giovanetti, consumando il matrimonio e così rendendolo irreversibile, nonostante la grave irritazione del papa. Morì dopo lunga malattia e fu sepolto a S. Andrea della Valle.
Ultima diretta discendente dei B. fu, come si è visto, Cornelia Costanza (1716-1797), figlia di Urbano ed erede, a soli sei anni di età, dei titoli e patrimonio della stirpe. Viveva all’epoca con la madre Maria Teresa Boncompagni, ma sotto la tutela e curatela dello zio cardinal Francesco junior. Anche dopo la celebrazione delle nozze il patrimonio B. fu gestito dallo zio cardinale. Intanto, la nascita di due maschi, oltre a molte femmine, assicurava la prosecuzione del nome B.; a Urbano, nato nel 1733 e destinato erede dei Colonna di Sciarra, seguì infatti Carlo (n. 1735), cui sarebbero spettati titoli e patrimonio dei B.
Nel maggio 1738 Giulio Cesare e Cornelia ottennero dai genitori di lui la terra di Bassanello (oggi Vasanello); tre mesi dopo, morto lo zio cardinale, Cornelia entrò in diretto possesso dei beni di famiglia: il principato di Palestrina, con le annesse terre di Castel San Pietro e Capranica Prenestina; lo «stato» di Montelibretti; Collalto Sabino con la vicina Marcitelli; Santa Marinella; le tenute di San Vittorino e San Giovanni in Camporazio. Queste ultime, già apportatrici di forti rendite, erano decadute e trascurate; Cornelia vi fece restaurare il palazzetto di Corcolle (1743), mentre a Palestrina promosse la ricostruzione della chiesa parrocchiale dell’Annunziata (1757), purtroppo distrutta durante la seconda guerra mondiale. Nel 1750 ai feudi barberiniani si aggiunsero, per la morte del padre di Giulio Cesare, quelli dei Colonna di Sciarra, primo tra i quali il principato di Carbognano. La situazione sembrava dunque del tutto favorevole alla ricostituzione di un’autonoma linea B. per il secondogenito di Cornelia. Di fatto le cose non andranno proprio così: entrambi i figli assumeranno il doppio cognome Barberini Colonna di Sciarra e il patrimonio sarà diviso: al primogenito Urbano andrà, oltre a Carbognano e agli altri beni Colonna, lo «stato» di Montelibretti (ora articolato in ducato di Nerola, marchesato di Corese e ducato di Montelibretti), mentre a Carlo spetterà il principato di Palestrina con le annesse terre di Castel San Pietro e Capranica Prenestina, nonché Collalto Sabino e Marcitelli. Gli altri feudi barberiniani erano stati da tempo venduti (da ultimo Santa Marinella, ceduta da Cornelia all’Archispedale di S. Spirito). La linea di Urbano (1733-1796), che pur usando il doppio cognome era propriamente quella dei Colonna di Sciarra, si estinse in linea maschile in un altro Urbano, nato a Frascati il 5 genn. 1913, morto durante la seconda guerra mondiale in combattimento aereo presso Malta (11 ott. 1942). Sua figlia Mirta, sposando Alberto Riario Sforza, ha dato luogo alla nuova linea Riario Sforza Barberini Colonna di Sciarra, tuttora fiorente.
A sua volta, la linea di Carlo (1735-1819) proseguì con il figlio Francesco Maria (1772-1853), durante la cui vita cessarono i diritti feudali su Palestrina e sulle altre terre dei B. (rinunzia formale del 17 dic. 1817); i diritti patrimoniali e il puro titolo di principe di Palestrina passarono poi al figlio Enrico (1823-1889) con il quale si concluse in linea maschile anche questa discendenza: dalle nozze con Teresa Orsini dei duchi di Gravina Enrico ebbe solo la figlia Maria (1872-1955) che, sposando nel 1891 il marchese Luigi Sacchetti, generò la linea tuttora fiorente dei Barberini Sacchetti, eredi del titolo di principi di Palestrina. Francesco Agapito (1898-1959), ultimogenito di Luigi e Maria, fu negli anni Venti sindaco e podestà di Palestrina, dov’era nato; nel 1965 il principe Augusto restaurò il ninfeo secentesco tra il palazzo e la via dei Merli.
Arme: d’azzurro alle tre api d’oro.
BIBL. e FONTI – Si riportano i rif. bibl. relativi alla presenza dei B. nel Lazio, rimandando per più ampie notizie alla fondamentale monografia di Pecchiai e alla bibl. generale sulla famiglia ivi cit., alle voci del DBI sui singoli membri. Valesio, V, pp. 341 – 342, VI, p. 137; Cecconi 1756, passim; Sperandio 1790, pp. 148, 185, 254; Marocco, II, pp. 115-118, 155-156, 171, III, pp. 36-37, V, p. 128, VII, pp. 83, 86, VIII, pp. 7-11, IX, pp. 81, 98, X, pp. 132-133, XI, p. 46; Visconti 1848, III, pp. 639-773; Moroni, ad indicem; Tomassetti, II, p. 184, III, pp. 318, 455, 512, 513, 516, IV, pp. 229, 311-312, 325, 326, VI, pp. 226, 265-268, 279, 289-290, 300-301 ; Silvestrelli, pp. 21-22, 152, 158-159, 160-163, 164, 168, 169, 170, 184, 285, 288, 290, 299-304, 307-308, 358, 361, 379-381, 402-404, 409-410, 477,479,668, 762; HC, III, pp. 63, 64, IV, p. 37, v, p. 41; Pecchiai 1959a; Sacchetti 1980, pp. 251-256, 261-265, 270; Belli Barsali – Branchetti 1981, pp. 260, 296-297, 311-312; Burke 1984, p. 61; Petrucci Nardelli 1984; Franchi 1988, pp. 177, 179; Tomassi 1992; Franchi 1994, pp. 538-539, 685687; Hammond 1994, pp. 236-237; Weber 1994, pp. 218, 403; Franchi 1997, pp. 63, 67, 120, 123, 171, 177, 207, 210, 282, 285; Tomassi 2002, pp. 44, 84, 120, 123, 124, 258, 362, 375; Rendina 2004, pp. 82-92; Guida TCI Lazio 2007, pp. 515, 541, 543; Franchi 2007b, pp. 233-234; Genealogie, Barberini; Signorelli, III, P. I, pp. 58-71.
[Scheda di Saverio Franchi – Ibimus; riduzione di Luciano Osbat – Cersal]