Chigi – Famiglia (Siena – Roma, Secc. XIII-XIX)

Famiglia patrizia romana, originaria di Siena (dove ne proseguì un ramo) e ivi fiorita dal sec. XIII; dal sec. XVI presente anche in Roma e ivi ascesa a primaria importanza con il cardinal Fabio, eletto nel 1655 papa Alessandro VII. I suoi parenti acquistarono terre e feudi nel Lazio. Alla loro pre­senza nella regione è dedicata questa voce, mentre per le notizie generali sulla famiglia e sui singoli membri si rinvia alla letteratura storica, critica e bio­grafica citata in Bibl.

Il celebre mercante Agosti­no «il Magnifico» (1469-1520), figlio dell’amba­sciatore senese a Roma Mariano, dal 1494 fu appaltatore dei pascoli del Patrimonio di S. Pietro e in bre­ve dominò le finanze pontificie come amico e favo­rito di Giulio II e Leone X. Ottenne il monopolio del­l’allume dei Monti della Tolta (dal 16 febbr. 1501) e ben presto il pieno dominio di quel territorio, dov’era sorto l’abitato di Allumiere (ivi fu eretto il «Fabbricone»), suscitando gelosia e reazioni da par­te della stirpe dei Frangipane. I suoi eredi (in primis il figlio Lorenzo Leone) chiusero però l’attività del­l’impresa nel 1528, dopo il Sacco di Roma.

In seguito alla creazione di papa Alessandro VII, i suoi parenti intendevano venire a Roma, ma in un primo tempo quel pontefice non volle, in un ti­mido tentativo di abolire il nepotismo; poi cedette. Più che la debole figura di Mario (1594-1667), fra­tello del papa, spiccarono nella vicenda quelle dei due nipoti (tra loro cugini) Flavio e Agostino.

Fla­vio (1631-1693), figlio di Mario, avviato alla car­riera ecclesiastica, fu dallo zio nominato cardinale il 9 apr. 1657; subito dopo acquistò, in favore di Agostino, il feudo di Farnese, vendutogli per 275.000 scudi da Pierfrancesco Farnese duca di La­tera; il feudo fu eretto in principato dal papa. Nel 1661, insieme al padre e al cugino, acquistò il feu­do di Ariccia, con titolo ducale, vendutogli per scudi 358.000 dal principe Giulio Savelli; l’atto, consentito da apposito chirografo papale del 19 luglio, fu rogato quattro giorni dopo dal notaio Tom­maso Paluzzi. In base a nuovo chirografo di Ales­sandro VII (15 sett. 1661), alcuni mesi dopo (19 giu­gno 1662) lo stesso notaio rogò l’atto di acquisto di un gruppo di feudi lungo la via Cassia, venduti ai tre C. dal duca Flavio Orsini: Formello, Campagnano (oggi Campagnano di Roma), Cesano e Scrofano (oggi Sacrofano). Autorizzato da un terzo chirogra­fo papale (7 dic. 1661), Flavio aggiunse a queste ter­re quella vicina di Magliano Pecorareccio (oggi Ma­gliano Romano), vendutagli dalla famiglia Borro­meo: si era così formata una fascia di domini chigiani estesa dalle vicinanze del lago di Martignano a ovest fino alla via Flaminia a est.

Di tutte queste terre, Flavio amò in modo particolare Formello, dove fece aprire dall’architetto Felice della Greca la nuova piazza e le strade verso La Storta e verso Cam­pagnano, e dove dal famoso architetto Carlo Fonta­na fece costruire la bella villa (1666-1674), detta con qualche esagerazione «Villa Versaglia». Ivi sog­giornò spesso, convitandovi il fiore della società ro­mana; memorabile in particolare la grande partita di caccia offertavi nell’inverno 1677 al contestabile Lorenzo Onofrio Colonna e a un gran numero di no­bili. Nella zona di Cesano ampliò i possessi di fa­miglia acquistando le vaste tenute Acquasona e Casaccia sulla via Clodia.

Dal 18 marzo 1686 fu Car­dinal vescovo di Albano, dove l’anno dopo convo­cò un sinodo diocesano; nel 1688 fece restaurare quella cattedrale, costruendovi una nuova sagrestia e un cimitero adiacente; l’architetto fu anche questa volta Carlo Fontana. Dal 19 ott. 1689 passò alla dio­cesi di Porto e Santa Rufina. Uomo di carattere leg­gero e mondano, ma non superficiale, buon mece­nate e bibliofilo, morì a Roma dopo lunga e atroce malattia, sopportata con pazienza e fu sepolto nella cappella di famiglia in S. Maria del Popolo.

Il cu­gino Agostino (1634-1705), fondatore della linea principesca della famiglia, si qualificò ai massimi gradi del patriziato romano mediante le nozze con Maria Virginia Borghese (1642-1718). In seguito ai già citati acquisti di feudi, fu, con diritto di primo­genitura istituito con atto del 9 giugno 1662, duca dell’Ariccia (1661), principe di Farnese (1657), duca di Formello (1661), principe di Campagnano (1662), marchese di Magliano Pecorareccio (1663), signore di Cesano e Sacrofano, oltre che principe del Sacro Romano Impero, patrizio romano coscritto, patrizio di Siena, Genova, Venezia. Lo zio pontefice gli donò anche parte delle saline di Ostia, che però Agostino preferì vendere ai fratelli Sacchetti (5 luglio 1659).

Fu importante il suo tentativo di produzione di seta: l’esperimento intendeva creare nella zona una attività al contempo agricola e industriale. Nel cor­so della vita di Agostino il tentativo sostanzialmen­te fallì, ma sarà ripreso dai suoi successori. Anche a Formello, luogo prediletto da suo cugino cardinal Flavio, Agostino ospitò l’aristocrazia romana per battute di caccia, banchetti e commedie in musica (splendide le feste nei carnevali 1668 e 1677). Nel 1697 finanziò per la metà la costruzione del nuovo ponte sul Cremera, tra Formello e Campagnano. Uomo mondano, curò molto l’immagine di splen­dore che annetteva alla propria dignità di principe romano; visse nel palazzo di piazza Colonna, oggi sede della Presidenza del Consiglio; fu sepolto nella cappella di famiglia in S. Maria del Popolo.

Il fi­glio Augusto (1662-1744) proseguì nella linea di magnificenza inaugurata dal padre; ai titoli familia­ri ereditati aggiunse quello, concessogli in perpetuo da Clemente XI nel 1712, di maresciallo di Santa Ro­mana Chiesa e custode del Conclave, che dopo di lui toccherà ai suoi successori. Il favore di papa Albani era dovuto all’ottimo rapporto avuto già con suo pa­dre e poi con lo stesso Augusto, che il 31 maggio 1710 ospitò splendidamente il pontefice all’Ariccia. Nel 1728 fece pubblicare un opuscolo con i Bandi generali validi nelle sue terre e feudi. Fu uomo ca­ritatevole verso i poveri e mite con i vassalli dei suoi feudi, dove incrementò l’allevamento, in particola­re quello di cavalli, di cui era intenditore. Peraltro fu «assai economo» (Valesio), in particolare per quanto riguardava la carica militare di maresciallo del conclave.

Da Augusto e da Maria Eleonora Ro­spigliosi nacque Agostino (4 apr. 1710), che suc­cesse al padre nei titoli e nei feudi. Fu caro all’im­peratrice Maria Teresa, che lo nominò principe del Sacro Romano Impero e cavaliere del Toson d’ Oro. Sposò nel 1735 Giulia Albani, creando una stretta alleanza tra le due famiglie. Nel Lazio ebbe cura del­le sue terre, dove seguendo il costume paterno ten­ne buoni allevamenti di cavalli. Con l’acquisto dell’Olgiata all’asta giudiziaria (17 sett. 1744, prezzo  57.000 scudi) ampliò verso sud il complesso di beni di famiglia lungo la via Cassia; con quello del prin­cipato di Soriano dal cognato Orazio Albani (1752) si insediava nella zona dei Cimini; con quello delle tenute di Castel Fusano, Spinerba e Guerrino, ven­dutegli da Giovanni Battista Sacchetti (27 giugno 1755) veniva in possesso di ampie zone costiere molto adatte all’allevamento. Nel 1753 fece costruire la fontana pubblica di Campagnano. Morì a Roma in palazzo Chigi il 29 dic. 1769.

Fi­gura di spiriti moderni fu il figlio Sigismondo, nato a Roma il 15 marzo 1736, uomo colto, amante di matematica e di lettere, imbevuto d’idee illuministi­che e «volterriane» assimilate a Vienna dove aveva studiato, patrono degli storici e archeologi Ennio Quirino Visconti (suo bibliotecario) e Carlo Fea, nonché dello storico dell’arte Francesco Milizia e del poeta Vincenzo Monti. Ad Ariccia, non appena divenuto duca titolare, condusse nel biennio 1770­-1771 grandi lavori, sia edilizi (al palazzo, alla fon­tana, alla collegiata) sia arborei, con piantagione di olmi lungo le strade e un nuovo impianto di gelsi a Vallericcia, spendendovi oltre 12.000 scudi e dando lavoro alla popolazione locale. Pochi anni dopo ri­fece a proprie spese i condotti della fontana pubbli­ca (1776). Nel palazzo di Ariccia visse a lungo, an­che perché sui rapporti con papa Pio VI rimase l’om­bra del sospetto di essere stato l’autore della feroce satira sul conclave in cui quel pontefice fu eletto (il finto e adespoto libretto per musica Il conclave del­l’anno MDCCLXXIV, testo che circolò in tutta Europa con decine di ristampe alla macchia e che fu amato dai primi giacobini romani), sospetto più che logico in quanto Sigismondo, come maresciallo di quel conclave ebbe accesso a notizie e indiscrezioni che altri non potevano conoscere. Ad Ariccia scrisse il poemetto didascalico L’economia naturale e politi­ca, pubblicato senza suo nome a Parigi (1781, primo volume) e a Parma (1783, secondo volume), in cui espresse le proprie concezioni sulla società e sul­l’economia con toni illuministici e anticuriali, am­mirati dal Visconti; anche il suo archivista Emanue­le Lucidi, pur essendo sacerdote (non bigotto ma di sicura fede), parlò della «sublimità de’ pensieri» di Sigismondo. Nel 1790, sospettato di aver tentato di av­velenare il cardinal Carandini, prefetto della Con­gregazione del Buon Governo, fuggì da Roma e dal­lo Stato della Chiesa; fu condannato in contumacia alla relegazione perpetua. Morì a Padova il 23 mag­gio 1793.

Il figlio Agostino, nato il 16 maggio 1771 dalle prime nozze del padre con Flaminia Odescalchi, ottenne da Pio VI i titoli e i feudi del suo ca­sato solo dopo la morte del padre. Come Sigismon­do, fu colto e amante di poesia, ma si tenne lontano dalle idee allora a Roma giudicate pericolose e nel 1796 sostenne con denaro le milizie pontificie con­tro l’invasione francese. Stabilitosi il governo gia­cobino a Roma, seppe destreggiarsi con efficacia, valendosi dell’incarico, ricevuto all’inizio del 1798, di agente diplomatico di Toscana. Salvò così il pa­trimonio familiare e dal governo napoleonico ebbe incarichi ufficiali, tra i quali quello di membro del­la commissione per il miglioramento dell’agricoltu­ra nell’Agro Romano (1810) e di presidente del di­partimento del Tevere (1813). Anche la restaurazio­ne del potere pontificio non gli arrecò alcuna mole­stia, consentendogli di mantenere un tono brillante nelle conversazioni culturali e nelle feste date in pa­lazzo Chigi. Nel 1816 rinunziò ai diritti feudali; del 1825 è la vendita di Farnese alla Camera Apostoli­ca per 120.000 scudi, con il diritto per sé e per i di­scendenti di mantenere il puro titolo di principe di quella terra. Nel 1852, all’estinzione della famiglia Albani, ne ottenne il patrimonio in base alla specifi­ca clausola del contratto nuziale del 1735 tra i suoi nonni Agostino e Giulia Albani, e aggiunse il co­gnome Albani al proprio; insieme al titolo nomina­le di principe di Soriano, ereditò così i beni degli Al­bani in quella terra. Morì a Roma il 10 nov. 1855, lasciando un importante Diario (BAV, Fondo Chi­gi, b. 3966bis), in cui sono riportate notizie pubbli­che e private dal 1801 al 1855; il documento, solo parzialmente pubblicato, costituisce una fonte di grande importanza per la conoscenza della società romana del primo Ottocento.

Con la fine della feu­dalità la presenza dei C. nel Lazio divenne pura­mente patrimoniale. Luogo prediletto continuò a es­sere Ariccia, nel cui palazzo nacquero nel 1858 il principe Agostino, morto nella battaglia di Adua (1896), nel 1866 suo fratello Ludovico, che fu gran maestro dell’Ordine di Malta e morì nel 1951, nel 1929 un altro principe Agostino (m. 2002), nipote ex filio di Ludovico, che nel 1988 ne fece cessione al Comune di Ariccia. Per incarico del Comune, ne è da allora conservatore l’architetto Francesco Petrucci, che ne ha curato l’attento restauro e che vi ha allestito mostre di importante livello artistico e cul­turale. Il palazzo Chigi di Formello, acquistato dal­l’Ente Maremma, è stato destinato a sede del Mu­seo dell’Agro veientano (2007). La villa dell’Olgiata era ancora di proprietà Chigi nel 1913, ma poi passò al marchese Mario Incisa della Rocchetta. La tenuta Chigi già Sacchetti a Castel Fusano fu ven­duta al Governatorato di Roma nel 1932; l’anno dopo fu aperta come parco pubblico. I C. vi hanno mantenuto la proprietà della villa.

La presenza dei C. a Viterbo è accertata dalla prima metà del XV secolo grazie all’attività del loro Banco che era una succursale di quello di Siena. Francesco, fratello di Agostino “il Magnifico” citato in precedenza, diresse il Banco che aveva sede in contrada Santo Stefano e sposò la nobile viterbese Battistina Gatti di Giovanni nel 1508. Fu tesoriere della Provincia del Patrimonio ed ebbe tra i figli un Ludovico e un Bernardino che ebbero incarichi importanti nel governo della Città e della Provincia e furono aggregati alla nobiltà viterbese. Con loro e i successori avviene il definitivo radicamento della famiglia in Città dove si imparentano con le maggiori famiglie viterbesi e proseguono a svolgere importanti incarichi nell’amministrazione cittadina e pontificia. La loro abitazione è in contrada San Biagio e le alleanza contratte attraverso i matrimoni li portano ad imparentarsi con la famiglia Montoro (nella seconda metà del Seicento assumeranno il cognome Ghigi-Montoro); Giovanni, che nel 1741 era tra i Conservatori di Viterbo, sposò nel 1746 Virginia dei marchesi Patrizi, ultima della sua casa; un suo nipote, sempre di nome Giovanni che per padre era Naro, unì il suo cognome a quello dei Montoro Patrizi divenendo capostipite della dinastia  dei Naro Patrizi Montoro che aveva dimora a Roma nel palazzo di Piazza San Luigi dei Francesi. Nel 1918 Laura Naro Patrizi Montoro vendeva a titolo definitivo all’avvocato Ferdinando Egidi il palazzo in contrada San Biagio già dimora della famiglia (oggi Via Chigi) a Viterbo.

Arme: di rosso al monte di sei cime d’oro, accompagnato in capo da una stella di otto raggi dello stesso. Attualmente quest’arme è inquartata con quella dei Della Rove­re (Chigi Albani Della Rovere).

BIBL. e FONTI – BAV, Archivio Chigi (grande raccolta di car­te e documenti su feudi, palazzi, biblioteca). – Lucidi 1796, pp. 109, 113, 191, 296-298, 299-302 e passim; Berti 1882, pp. 159, 166, 169, 170-171, 177, 186; La Ragione 1898, pp. 58-59, 64; Tomassetti, II, pp. 243, 246, III, pp. 32, 34, 102, 116-117, 268, v, p. 365; Silvestrelli, pp. 137-138, 174-176, 534, 541, 612-614, 692; Frittelli 1922; Spreti, II, pp. 448-449; Montenovesi 1938; Paschini 1946; Ugolini 1957, passim; Giuntella 1971, p. 304; Lefevre 1973; Valesio, II, p. 341; DBI, 24, ad voces Chigi (con rif. alle fonti e altra bibl.); Belli Barsali-Branchetti 1981 pp. 196-205, 244-248, 264, 308-309; Lefevre 1981a; Girelli 1983; Petrucci 1984; Franchi 1988, pp. 451, 465, 556; Bugliosi 1989, p. 32; Lefevre 1989; Lefe­vre 1991; Petrucci-Bassani 1992; Armando 1994; Weber 1994, pp. 577-578; Fagiolo dell’Arco-Petrucci 1998; Ca­racciolo 2001; Rendina 2004, pp. 233-244; Di Felice et al. 2004; Genealogie, Chigi Albani della Rovere; Angeli 2003, pp. 137-139 (con ampia bibliografia).

[Scheda di Saverio Franchi – Ibimus; revisione e integrazione di Luciano Osbat – Cersal]