Muti –  Famiglia (Roma, secc. XVI-XX)

Antica famiglia patrizia romana che si divise nel Cinquecento in due rami, il principale con palazzo nel rione Pigna, il cadetto con palazzo nel rione Campitelli. Entrambi i rami ebbero possessi feudali e fondiari nel Lazio; tra essi parte della vasta tenuta di Casal Boccone sulla Nomentana (dal sec. XV ad oltre il 1660) e, per intero varie altre tenute, tra cui Palidoro sull’Aurelia (fino al 1588) e Casal Malborghetto sulla Flaminia (fino al 1649). Autore dell’ascesa feudale della famiglia fu Carlo, figlio di Giacomo (del ramo principale) e di Tritonia Alberini, che acquistò dapprima Torrimpietra, vendutagli da Domenico di Antonio Massimo (atti not. Foschi del 17 nov. 1567), poi Vallinfreda, comprata verso il 1570 dalla famiglia Zambeccari, poi i castelli della valle del Turano  comprati il 26 nov. 1573 da Muzio Estouteville. Questi castelli, insieme a Vallinfreda, furono da lui costituiti in fedecommesso (atti not. Foschi, ll maggio 1582). Qualche anno dopo Sisto V li eresse per lui in ducato con il nome latino di Vallis Mutia.

Non meraviglia perciò che Carlo abbia ceduto alla sorella del papa, Camilla Peretti, le tenute di Torrimpietra e di Palidoro, quest’ultima al prezzo (forse solo nominale) di 80.000 scudi (19 luglio 1588). A Roma Carlo trasformò le case quattrocentesche di famiglia in via del Gesù nel palazzo ancor oggi esistente e durante il giubileo del 1575 vi ospitò gratuitamente per tre giorni tutti i pellegrini provenienti dai suoi feudi: nel corso dell’anno offri cosi vitto e alloggio ad oltre novecento contadini, compiendo un’azione che pose la famiglia M., fino ad allora ben più modesta, in piena e virtuosa luce agli occhi della Curia pontificia. Carlo, che da giovane si era fatto cavaliere dei Ss. Maurizio e Lazzaro, divenendo prima del 1580 priore di Roma e gran cancelliere di quell’Ordine sabaudo, fu nominato dal duca di Savoia Carlo Emanuele I suo ambasciatore a papa Sisto V, con l’aggiunta del titolo di marchese di Settimo Torinese. Le sue lettere e relazioni al duca, conservate nell’Archivio di Stato di Torino, sono una fonte di notevole importanza per la storia politica del tempo. I rapporti dei M. con i Savoia proseguiranno all’inizio del Seicento, quando il palazzo di via del Gesù sarà messo a disposizione del nuovo ambasciatore abate Scaglia (1614) e ai M. sarà confermato il marchesato di Settimo.

Nel 1563 Carlo aveva sposato una Della Citera, di un’antica famiglia romana della quale egli stesso, come afferma l’Amayden, ricostruì la genealogia. Dalle nozze nacquero numerosi figli, tra cui Tiberio (v.), che divenne cardinale. Carlo fece testamento nel 1580, ma la successione fu difficile. Il primogenito Giacomo, nato nel 1571, fu costretto a scorporare Vallinfreda dal fedecommesso di famiglia e a venderla prima del 1592 a Giovanni Theodoli; fu pure alienata la tenuta di Perna o Pernuzza sulla Laurentina, mentre a Giacomo rimase parte di quella di Castel Giudio, anch’essa sulla Laurentina. Per valorizzare i suoi feudi della valle del Turano, Giacomo fece costruire a Canemorto (oggi Orvinio), che ne era il centro amministrativo, la chiesa di S. Giacomo; al termine dei lavori (1614) vi fu posta una iscrizione commemorativa. Appassionato di teatro, sostenne e ospitò in casa propria le recite della “Congrega dei Taciturni” (il cui nome alludeva al cognome Muti), per cui gli fu dedicata la commedia I difettosi di Giovanni Briccio (1605, gran successo) e a suo figlio Carlo fu dedicata la sacra rappresentazione La Cicilia di fra Bemardino Turamini (1613). Mori a Roma il 17 marzo 1623 e fu sepolto nella tomba di famiglia a S. Marcello. Suo successore fu il figlio Michelangelo, che nel 1632 si accordò con il principe Marcantonio Borghese per scambiare il gruppo di terre costituenti il ducato di Vallemutia (Canemorto, Pozzaglia, Petescia e Montorio di Valle) con il feudo di Rignano sulla via Flaminia; la permuta fu consentita da Urbano VIII con chirografo del 13 nov. 1632 e attuata con rogito del 19 luglio 1633; nel cambio Michelangelo conservò il titolo ducale, che era stato istituito su Rignano fin dal 1613. Come il padre, amava il teatro e nel 1635 ebbe in dedica la commedia Li fortunati amanti dal medico Bernardino Todeschini di Vignanello. Era marito di Virginia di Cosimo Orsini (ramo di Pitigliano), da cui ebbe i figli Isabella (m. 1687, moglie di Carlo Conti), Giacomo, Carlo (prelato, poi vescovo di Città della Pieve, infine cardinale) e Cosmo Ferdinando, cavaliere di Malta e marchese di Settimo Torinese. Mori nel 1648 e come duca di Rignano gli successe Giacomo, nato nel 1634. Essendo adolescente, Giacomo rimase per qualche anno sotto la tutela della madre Virginia Orsini (m. 1673), che gli fece vendere il casale di Malborghetto sulla Flaminia a Maria Pamphili Giustiniani (atti not. Simoncelli del 22 febbr. 1649). Dalle nozze con Maria Virginia Caffarelli (1648-1731 ) ebbe solo una figlia femmina, Teresa, nata nel 1675. Quando con il passare degli anni venne meno la speranza di un figlio maschio, nacque il problema della successione. Il fratello Cosmo Fernando, che era cavaliere di Malta dal 17 febbr. 1651, domandò al papa d’esser sciolto dai voti per potersi sposare e proseguire la stirpe; molto gli giovo, per ottenere la grazia, aver scritto e pubblicato un’apprezzata opera sul Tevere (La Tiberiade, Velletri, Cafasso, l67l). Ma neppure cosi nacque il sospirato erede. Allora il vecchio Giacomo diede in moglie la bellissima Teresa a Taddeo Barberini (contro la volontà del cardinal Carlo suo fratello, capo morale di quella famiglia), con dote della successione universale nei feudi e beni ma con l’obbligo di assunzione del cognome Muti da parte dello sposo (17 sett. 1701). La successione sembrava assicurata, ma Taddeo mori di li a poco (15 febbr. 1702) e Giacomo fu costretto a far risposare la figlia con Federico Cesi, figlio del duca di Acquasparta, alle stesse condizioni delle nozze precedenti (17 giugno 1703). Morto però Giacomo il 28 sett. 1707 e dopo altri quattro anni anche Teresa (7 nov. 171 l), Federico Cesi, che dal 1705 era titolare del ducato di Acquasparta (ben più cospicuo di quello di Rignano), si guardò bene dall’assumere il cognome Muti o dal farlo assumere al piccolo Carlo, nato il 1′ ag. 1705, estinguendo cosi di fatto se non di diritto il ramo principale di quella famiglia.

Il ramo cadetto dei M., che aveva palazzo a Roma nel rione Campitelli sotto il Campidoglio, si estinse a sua volta in Andrea (1663-1723), figlio postumo di un altro Andrea e di Diamante Vecchiarelli, il quale, privo di prole e di qualsiasi parentela cui lasciare i propri beni, designò erede universale Innocenzo Bussi, figlio quartogenito del conte Giulio Bussi di Viterbo; era infatti rimasto colpito dal buon carattere di quel giovane, che era rimasto vedovo dopo pochi mesi di matrimonio con una damigella di Rieti. Nell’assumere l’eredità, Innocenzo adottò il cognome Muti premettendolo al proprio. Nacque cosi la linea dei Muti Bussi. Nel 1739 Innocenzo divenne duca, acquistando i feudi sabini di Rocca Sinibalda e Belmonte dal duca Filippo Lante, oppresso dai debiti (21 sett. 1739). Era ancora vivo nel 1781 quando rivendette il ducato al marchese Amanzio Lepri; mori subito dopo. Il suo successore Giovanni Paolo, o ebbe il titolo di marchese e visse per lo più a Viterbo. La discendenza di questo ramo si concluse in linea maschile in Giulio (1895-193l), la cui sorella Olimpia ottenne con decreto reale del 29 giugno 1933 di poter trasmettere il cognome Muti Bussi con titolo di marchesi ai propri discendenti.

BIBL. – Amayden, I, p. 314, II, pp. 89-92; Valesio, , pp. 466, 491, I, p. 626, V, pp. 156, 4l9, 895, VI, p. 265; “D.O.”, n. 699 del 10 genn.1722, p.5, n.848 del 9 genn. 1723, p.8; Sperandio 1790, p.485; Forcella, II, p. 320; Tomassetti, II, p. 508, III, pp. 263, 348, V, pp.443,458, VI, pp. 178-181; Silvestrelli, pp. 216, 279-280, 442, 447, 481, 483-486, 490-491, 516-517, 608-609; Pastor, IX/1, p. 153, X, pp.409, 664-666; Spreti, IV, pp.75l-754; Pietrangeli 1980b, pp.94,96; Franchi  1988, pp. 37, 71, 208; Weber 1989, pp. 391-392 (con parziale genealogia); Weber 1994, p.794; Angeli 2003, pp.81, 82, 628-629 (con genealogia dei Muti Bussi).

[Scheda di Saverio Franchi – Ibimus; riduzione di Luciano Osbat – Cersal]