Adami Andrea – Cantore, Storico, Erudito (Bolsena, 30 nov. 1663 – Roma, 22 luglio 1742).

La famiglia, stabilita a Bolsena nel sec. XV, era d’origi­ne veneta (ciò che avrà un peso nel favore del ve­neziano cardinal Ottoboni per A.); i genitori, Fran­cesco (n. 1629) e Caterina Rinaldi (1635-1704), erano commercianti di pesce. Probabilmente A. fu, fanciullo, cantore nella cattedrale di Montefiascone, dove certamente studiò, ponendo le basi della buona cultura umanistica dimostrata in età adulta. Prima della muta della voce fu evirato, acquistan­do registro da sopranista e completando con qual­che maestro locale la sua preparazione musicale. Al più tardi nel 1682 si stabilì a Roma, dove nel no­vembre di quell’anno fu assunto come soprano nel­la Cappella Giulia di S. Pietro in Vaticano, con 5 scudi mensili di stipendio; ma il suo servizio nella basilica fu breve e discontinuo. Già in precedenza, forse fin dal 1682, era in contatto con la corte del cardinal Pietro Vito Otto­boni: come hanno stabilito studi recenti, doveva es­sere al suo diretto servizio nel palazzo di sua resi­denza (attuale palazzo Venezia). Quando il suo pa­trono fu esaltato al trono pontificio con il nome di Alessandro VIII (6 ott. 1689) per A. si dischiusero le più liete speranze. Fra i primi atti del suo governo, il nuovo papa diede la porpora cardinalizia al pro­nipote Pietro Ottoboni (1667-1740); alla vita di quest’ultimo, splendido e famoso mecenate artisti­co, fu da allora strettamente legata quella di Adami.

Il giovane cardinale abitò nel palazzo della Can­celleria, dove sovrintendeva agli atti di quella am­ministrazione; ivi A. risulta iscritto nei ruoli della sua «famiglia» dall’ott. 1689 al marzo 1699 con ben 10 scudi mensili di stipendio. Nello stesso tem­po fu assunto, senza concorso per ordine diretto del papa, tra i cantori della Cappella Pontificia come soprano soprannumerario (11 ott. 1689); in quella celebre istituzione si svolse gran parte della sua at­tività e di essa diverrà lo storico. Come soprannu­merario non aveva stipendio, ma dal 24 genn. 1690 ebbe mezza paga, dal 4 genn. 1691 paga intera, nel 1698 fu «puntatore» e tenne il Diario dell’attività (BAV, fondo Capp. Sistina, Diar. W 117), nel 1700 maestro pro tempore, confermato (fatto singolare) anche nel 1701 per volontà del papa e del Cardinal Ottoboni, che della Cappella Pontificia era «protettore».

Poiché Ottoboni come «protettore» del Collegio dei cantori pontifici ave­va grande autorità su quella cappella, nel febbr. 1701 A. si permise di sfruttare la sua raccomanda­zione per fare assumere un altro sopranista suo con­terraneo, Mariuccio Pippi da Acquapendente; l’aperto favoritismo fu stigmatizzato dal diarista Valesio. Nel 1711, essendo di nuovo maestro pro tempore della Cappella Pontificia, pubblicò un volume sul­la stessa (Osservazioni per ben regolare il coro de i cantori della Cappella Pontificia tanto nelle fun­zioni ordinarie, che straordinarie, Roma, per An­tonio de’ Rossi, 1711; rist. in facs. a cura di Gian­carlo Rostirolla, Lucca, lim, 1988).

Il 13 ott. 1714, dopo i prescritti 25 anni di servizio, A. fu «giubilato». Da quando si era stabilito a Roma, aveva abitato dapprima in par­rocchia di S. Biagio della Fossa, presso la Chiesa Nuova, poi era stato direttamente ospitato da Otto­boni nel palazzo della Cancelleria (almeno dal 1700). Lì trascorse anche gli anni dopo la giubila­zione, formandosi, secondo l’espressione del pitto­re Ghezzi, «buona libreria» giacché, probabilmen­te spinto dall’esempio del nipote Leonardo, si era dato agli studi storici ed eruditi. Né, come d’uso nella Cappella Pontificia, la giubilazione significava il troncamento dei rap­porti con quella istituzione: A. restò rappresentan­te del collegio dei cantori papali presso il cardinal «protettore», com’era dal 1711; e nel 1733 divenne decano dei cantori, altro ruolo onorifico ma uffi­ciale, con il quale prendeva parte ad alcune ceri­monie.

In quegli anni stava scrivendo la sua opera più ambi­ziosa, la storia della sua cittadina natale, che sarà pubblicata in due tomi con il titolo Storia di Volseno antica metropoli della Toscana (Roma, per An­tonio de’ Rossi, 1734 e 1737; rist. anast. Bologna, Forni, 1970). L’opera, dedicata dall’autore a santa Cristina patrona di Bolsena, fu accolta con qualche riserva; nelle «Novelle della Repubblica Lettera­ria» (n. 1 del 3 genn. 1739) fu pubblicata una re­censione piuttosto critica, riportata in Esposito 1972. Le pretese di A. di considerare l’antica Volsinii come la principale città della Decapoli etrusca incontrarono resistenze e la metodologia, ancora le­gata ai fantasiosi collegamenti di Annio da Viterbo tra Ebrei, Greci ed Etruschi, non era al passo con la migliore storiografia dell’epoca. Tuttavia l’ope­ra di A. ebbe un suo posto negli entusiasmi del tem­po per le antichità etrusche, che porteranno nel me­dio e tardo Settecento alla moda dell’«etruscheria»; riportando nel secondo tomo una lunga serie di iscrizioni, A. fu dunque uno degli antesignani, in­sieme a G. B. Passeri e ai fondatori dell’Accade­mia di Cortona, di questo movimento non privo di finalità ideologiche. Dell’Accademia Etrusca A. era socio già prima del 1734. Morto il Cardinal Otto­boni (28 febbr. 1740), A. lasciò il palazzo della Cancelleria (dove teneva con sé la cognata Cristina Penna, vedova di suo fratello Antonio, e quattro ni­poti) e andò a vivere nei pressi di S. Maria Mag­giore. Mori due anni e mezzo dopo e fu sepolto nel­la piccola chiesa di S. Salvatore ai Monti; il rito fu­nebre, secondo la consuetudine, fu cantato dalla Cappella Pontificia. La tomba, posta al centro del­la chiesa e recante un’iscrizione commemorativa, fu rimossa per urgenti lavori condotti nel 1762, al termine dei quali le ossa di A. furono ancora sepol­te sotto il nuovo pavimento. Pingue era l’eredità la­sciata da A. (nel 1723 Ghezzi lo aveva definito «ric­chissimo et anco fortunatissimo»), comprensiva, ol­tre al denaro e agli immobili, di musica propria e altrui, di una consistente raccolta di libri, di quadri di valore. Questo patrimonio andò man mano di­sperso.

La ricca biblioteca di A. (vo­lumi a stampa e manoscritti) passò al nipote Giu­seppe Maria (n. 1702); ebbe modo di consultarla il dotto francescano Giovanni Antonio Bianchi (Lauriso Tragiense P. A.), rinvenendovi il manoscritto di una sconosciuta sacra rappresentazione del bolsenese Alessandro Donzellini. Alla pronipote di A., Maria Vittoria, pervennero alcuni quadri del pro­zio, e tra essi un bellissimo Amore e Psiche di Be­nedetto Luti (uno dei disegnatori delle incisioni per le Osservazioni del 1711), da lei venduto nel 1771 alla Pinacoteca Capitolina e oggi conservato nel­l’Accademia di San Luca. Gli interessi artistici di A. ebbero riflessi anche a Bolsena, dove egli fu ispiratore della ricca decorazione pittorica nella chiesa di S. Francesco (una tela di Francesco Tre­visani è oggi in S. Cristina); secondo Anna Lo Bianco, anche un altro dipinto nella chiesa di S. Cristina, il Sant’Antonio che predica ai pesci di Se­bastiano Conca, fu commissionato da A. con un vo­luto riferimento alla professione patema di pesci­vendolo. Oltre ai due ritratti fattigli da Ghezzi (ri­prodotti e commentati in Rostirolla 2001), resta di A. il ritratto inciso da Jakob Frey il Vecchio su di­segno di Trevisani e pubblicato nelle citate Osser­vazioni (1711).

BIBL.: S. Franchi, voce Adami Andrea in Regione Lazio, Dizionario storico biografico del Lazio. Volume I, Roma 2009, pp. 9-12; Dizionario biografico degli italiani, vol. I,  Roma, 1960,  pp. 231-232 (voce non firmata).

[Revisione di Luciano Osbat – Cersal]